Il coraggio di cambiare (anche quando non dovresti)
C’è una regola non scritta nel mondo dei sequel: “Se funziona, non toccarlo.” Ma si sa, gli sviluppatori sono un po’ come i cuochi stellati: appena trovano la ricetta perfetta, devono per forza aggiungerci wasabi e nitroglicerina. Così, invece di servire “più dello stesso”, certi geni del male hanno deciso che “lo stesso” era roba da plebei.
Il risultato? Giocatori confusi, riviste furiose e fan che urlavano “l’avete rovinato!” come se gli avessero cancellato i salvataggi.
Ma sotto quella patina di follia e scelte discutibili si nascondevano idee che oggi definiremmo “visionarie”, o almeno, così ci piace pensare per non ammettere che vent’anni fa non avevamo capito niente.
Sono i sequel eretici, i coraggiosi, i fraintesi: quelli che provarono a reinventarsi quando nessuno gliel’aveva chiesto e che, nel farlo, scrissero pagine di follia creativa che ancora oggi meriterebbero un applauso… o almeno una pacca sulla spalla e un “forse avevi ragione tu”.
Oppure no?
È facile oggi, con l’aria da critico illuminato e la barba accademica, dire che “non avevamo capitoCastlevania II: Simon’s Quest”, che era avanti, sperimentava e anticipava la fusione tra azione e RPG. Ma prova a dirlo al te dodicenne che, davanti allo scaffale del negozio, sceglieva quel “cartuccione” pensando “è Castlevania, ma con più mostri!”.
Quando quel gioco doveva essere il tuo gioco per mesi, la tua unica avventura sotto l’albero di Natale o dopo la paghetta, il discorso cambia parecchio: non stavi cercando la sperimentazione, volevi solo ammazzare vampiri a colpi di frusta, non tradurre enigmi esistenziali in inglese medievale.
I pionieri 8-bit: gli eretici in tempi semplici
Erano tempi più semplici, certo: bastavano due tasti, un po’ di fantasia e tanta pazienza. Ma anche tra i pixel innocenti dell’era 8-bit c’erano sviluppatori che decisero di osare troppo. Giochi che oggi vengono celebrati come pionieri del design moderno, capaci di introdurre meccaniche che avremmo ritrovato nei capolavori di decenni dopo… ma che all’epoca erano più odiati di un livello subacqueo con tempo limitato.
E sì, li ho avuti entrambi. Li ho giocati, li ho amati, li ho detestati, in ordine sparso e a giorni alterni. Lì, tra l’entusiasmo infantile e il trauma digitale, ho capito che anche il genio, su NES, poteva farti piangere davanti alla TV.
Castlevania II: Simon’s Quest
Il primo Castlevania(1986) era puro istinto arcade: salti millimetrici, frusta alla mano e una progressione lineare scolpita nella pietra. Nessuna introspezione, nessun enigma: solo tu, Dracula e una lunga serie di scale che sembravano progettate da qualcuno che odiava profondamente l’ergonomia.
Ma alla Konami nel 1987 qualcuno decise che frustare vampiri non bastava più, serviva profondità. Così, via le linee dritte e dentro un mondo “aperto”, con NPC misteriosi, cicli giorno/notte e dialoghi così criptici da farti rimpiangere la chiarezza di un manuale d’istruzioni in giapponese non tradotto. All’epoca sembrava un disastro di game design: nessuno capiva dove andare, cosa fare, o perché il sole decidesse di tramontare proprio mentre stavi saltando su una piattaforma.
E poi c’erano gli enigmi. Ah, gli enigmi. Tipo quello del masso invisibile da attraversare inginocchiandosi per cinque secondi con il cristallo rosso in mano, un gesto che, se non ti era stato rivelato da un paesano delirante o da una guida Nintendo Power, non avresti mai scoperto neanche per sbaglio.
O l’indicazione “Hit Deborah Cliff with your head to make a hole”, che tradotta suonava come una barzelletta malriuscita e nella pratica voleva dire:stai fermo come uno scemo e aspetta che succeda qualcosa.
Ma non basta. Alcuni NPC danno indizi volutamente falsi o trollanti, errori di localizzazione (alcune frasi “neutre” giapponesi sono state tradotte in modo fuorviante), muri che dovevi rompere ma non avevano crepe né indizi visivi, e molto altro.
Per un bambino dell’epoca era praticamente impossibile arrivare a vedere i titoli di coda.
Eppure Simon’s Quest ha gettato le basi di quello che oggi chiamiamo Metroidvania: esplorazione libera, progressione per potenziamenti, e la sensazione di un mondo interconnesso che ricompensa la curiosità. Certo, a suo tempo l’unica cosa che ricompensava era la tua frustrazione. L’unico gioco dove chiedere aiuto a un paesano era più rischioso che combattere Dracula.
Zelda II: The Adventure of Link
Nintendo, 1987. Dopo il trionfo del primo Legend of Zelda, un gioco che aveva reinventato l’avventura, Shigeru Miyamoto e soci decisero di… buttar via la mappa. Letteralmente.
Zelda II spiazzò tutti con un gameplay a scorrimento laterale, combattimenti in tempo reale e un sistema di livelli degno di un proto-RPG.
Un sequel che voleva essere più esperimento che continuazione, ma che finì per sembrare il fratello ribelle che si è tatuato “differente” sulla fronte.
La vera follia di Zelda II stava nella sua struttura ibrida, un patchwork di idee che oggi definiremmo “ambiziose”, ma che all’epoca suonavano più come “ma che diamine sta succedendo?”. L’esplorazione del mondo avveniva dall’alto, in una mappa che ricordava il primo Zelda ma semplificata, quasi astratta, una specie di RPG da tavolo in miniatura, dove ti muovevi come un segnaposto in cerca di guai.
Appena entravi in contatto con un nemico o in un’area d’interesse, però, il gioco cambiava prospettiva e diventava un platform d’azione in 2D, con salti millimetrici, duelli a colpi di scudo e un Link che sembrava uscito da un torneo di scherma medievale.
Un sistema schizofrenico ma affascinante, che cercava di fondere l’avventura strategica con l’adrenalina dell’azione. Oggi potremmo chiamarlo dual gameplay system, ma nel 1987 era più che altro un modo elegante per dire: “preparati a morire in due dimensioni diverse”.
All’epoca, molti giocatori lo presero come un tradimento personale: dove erano finiti i dungeon aperti, la libertà d’esplorazione, la mappa che ti faceva sentire un eroe in miniatura?
Ora c’erano schermate bidimensionali, nemici spietati e un sistema di magie che divorava punti esperienza come se fosse una dieta a base di lacrime. Ogni scontro era una lezione di umiltà, anche contro i melmosi Bot che ti facevano a pezzi con la gioia sadica di chi sa che non hai ancora imparato a parare.
Eppure, nel suo caos, Zelda II aveva una visione: unirel’azione diretta al progresso del personaggio, sperimentare con il concetto di crescita e rischio. Era un laboratorio di idee, nascosto dietro un’apparenza di frustrazione pura. Oggi possiamo guardarlo con rispetto, quasi come un antesignano dei soulslike.
Tra le sue follie, Zelda II introdusse villaggi popolati da NPC, magie da apprendere, e un sistema di esperienza che faceva crescere Link come in un vero RPG. Per la prima volta non eri solo un eroe con la spada, ma un personaggio che evolveva, parlava, decideva. In sostanza, un prototipo precoce di ciò che oggi chiamiamo action RPG, solo con più dolore e meno tutorial.
Ma per chi lo giocò allora, convinto di ritrovare l’avventura tranquilla del primo Zelda, fu un colpo basso: il classico caso in cui compri un sequel e ti ritrovi in un esame di sopravvivenza.
Super Mario Bros. 2 (USA)
Niente Bowser, niente Koopa, niente tubi che portano all’inferno logistico di un idraulico: solo sogni e verdure da lanciare in faccia ai nemici. Super Mario Bros 2 è l’equivalente videoludico di un sogno dopo una cena pesante; un gioco bizzarro, coloratissimo, dove la logica prende ferie e la fisica si mette a ridere.
La verità? In realtà non era nemmeno un vero Mario: Nintendo, temendo che il Super Mario Bros. 2 giapponese fosse troppo punitivo per il pubblico occidentale, prese un titolo completamente diverso, Doki Doki Panic, e gli appiccicò sopra i volti di Mario, Luigi, Peach e Toad. Un colpo di genio (o di follia commerciale) che trasformò un progetto dimenticabile in un classico da manuale.
Eppure, dietro quella maschera improvvisata, si nascondeva una rivoluzione: quattro personaggi giocabili con abilità diverse, un design verticale che spingeva all’esplorazione e un tono surreale che oggi consideriamo un marchio di stile. All’epoca confuse mezzo mondo, ma nel tempo ha insegnato a Nintendo che anche i sogni strani possono vendere milioni di copie.
A differenza di Simon’s Quest o Zelda II, Super Mario Bros. 2 noi lo abbiamo amato da subito. Forse perché era strano, sì, ma era uno strano allegro, colorato, giocoso. Nessuno si è lamentato della mancanza di Bowser o dei Goomba: eravamo troppo occupati a lanciare rape, a scoprire scorciatoie nascoste e a litigare su chi potesse usare la Principessa — l’unica con un salto decente. Era diverso, certo, ma lo abbiamo consumato: pomeriggi interi passati a esplorare ogni livello come se stessimo decifrando un sogno collettivo a 8-bit. Un sequel fuori rotta che, paradossalmente, riuscì a farci sentire perfettamente a casa.
Poligoni e rivoluzioni: quando i sequel persero il senno (in 3D)
Con l’arrivo del 3D, il videogioco smise di essere un giocattolo e iniziò a prendersi tremendamente sul serio, spesso con risultati meravigliosi, altre volte disastrosi. Gli sviluppatori avevano finalmente potenza, spazio e ambizione… e li usarono per sperimentare tutto ciò che gli passava per la testa. Il risultato? Sequel che abbandonavano le regole, ridefinivano generi e, a volte, dimenticavano persino di essere divertenti. Ma almeno nessuno poteva accusarli di giocare sul sicuro.
Dino Crisis 2
Capcom, Anno 2000. Dopo il primoDino Crisis, che era fondamentalmente Resident Evilcon più zanne e meno zombie, nessuno si aspettava un cambio di rotta così drastico.
E invece Dino Crisis 2 mandò all’aria la tensione del survival horror e la sostituì con esplosioni, mitragliatrici e punteggi a schermo: un Jurassic Park diretto da Michael Bay. I fan dell’horror psicologico rimasero perplessi, volevano paura, si ritrovarono combo.
Il cuore del gioco era il suo ritmo forsennato: ogni dinosauro abbattuto in rapida successione aumentava il punteggio, premiando la precisione e la velocità con bonus da sala giochi. Non contava solo sopravvivere, ma farlo con stile, concatenare uccisioni senza farsi toccare, come in un balletto di proiettili e ruggiti. Più combo facevi, più punti guadagnavi, e con quei punti compravi armi, munizioni e potenziamenti.
In pratica, Capcom aveva preso il concetto di survival horror e l’aveva trasformato in un action a tempo, dove la paura lasciava spazio all’adrenalina pura.
Ma dietro l’apparente tradimento si nascondeva un’intuizione brillante: il passaggio dall’horror al ritmo arcade, con meccaniche basate sul punteggio, la velocità e lo stile nell’uccidere dinosauri. In pratica, un prototipo inconsapevole di ciò che pochi anni dopo sarebbe diventato Devil May Cry. All’epoca sembrò un delirio fuori strada, oggi appare come uno dei primi esperimenti nel rendere l’azione una performance. Io mi ci divertii come il bambino che, a mio malgrado, non ero più da tempo.
Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty
Il primo Metal Gear Solid (1998) era stato una rivelazione: il momento in cui il videogioco dimostrò di poter raccontare una storia da cinema senza rinunciare al controllo del giocatore.
Snake e Raiden, protagonisti di Metal Gear Solid 2
Hideo Kojima unì regia, doppiaggio e tensione in un’unica esperienza che fece sembrare tutti gli altri giochi dell’epoca improvvisamente vecchi. Snake divenne un’icona, il sigaro d’azione e filosofia, e noi ci sentivamo parte di qualcosa di adulto, moderno, quasi proibito. Dopo un tale capolavoro, era inevitabile che qualunque cambiamento — anche geniale — venisse vissuto come un affronto personale. E fu proprio per questo che, qualche anno dopo, Kojima decise di fare l’unica cosa impensabile: toglierci tutto ciò che ci faceva sentire al sicuro. 2001, Metal gear Solid 2. Qui il gameplay non cambiò molto: infiltrazione, gadget, guardie con un campo visivo da talpa e quella miscela perfetta di tensione e precisione che Kojima aveva già consacrato nel primo Metal Gear Solid. La vera rivoluzione arrivò altrove, nella narrativa, e nel colpo di mano più audace (e divisivo) della storia dei sequel: togliere al giocatore Solid Snake.
Dopo un’ora di gioco, il protagonista iconico sparisce, e ci ritroviamo a controllare Raiden, un novellino biondo e loquace che sembrava uscito da una boy band cyberpunk.
Una mossa che mandò in crisi mezzo fandom, ma che aveva uno scopo preciso: ribaltare le aspettative, farci vivere la leggenda di Snake da fuori, come un mito che ci sovrasta. Era una mossa meta-narrativa ante litteram, un gioco che parlava direttamente al giocatore e, nel finale, letteralmente con lui, su identità, controllo e informazione. Metal Gear Solid 2 non chiedeva solo di completare una missione: chiedeva di mettere in discussione chi la stava giocando. All’epoca sembrò un tradimento, oggi è considerato uno dei momenti più audaci e lucidi del medium.
Anche se, ammettiamolo, quando apparve Raiden con i suoi capelli da shampoo pubblicitario, tutti abbiamo avuto la stessa reazione: “Kojima, ma che ti sei fumato?”.
Troppo strani per piacere, troppo geniali per sparire
Riguardandoli oggi, tutti questi sequel sembrano figli di un’epoca in cui sbagliare era ancora possibile. Esperimenti che, al momento dell’uscita, ci fecero alzare le sopracciglia (o lanciare un pad), ma che col senno di poi hanno lasciato un segno più profondo di tanti seguiti “perfettamente inutili”.
Erano giochi che osavano cambiare, anche a costo di farsi odiare. Che toglievano al giocatore ciò che voleva, per offrirgli qualcosa che ancora non sapeva di desiderare. In un’industria che oggi vive di remake, reboot e comfort zone digitali, il loro coraggio suona quasi rivoluzionario.
Forse avevano torto nei tempi, forse avevamo torto noi nel giudicarli.
Ma resta una verità universale: i videogiochi più memorabili non sono quelli che ci hanno dato di più dello stesso, ma quelli che ci hanno fatto dire “ma che c..?” — e poi, vent’anni dopo, ci hanno fatto capire che sì, avevano solo viaggiato nel tempo troppo in fretta.
Ma ora scusatemi: devo chiedere perdono a Raiden, ad un paio di dinosauri e alla mia copia di Simon’s Quest che, onestamente, non se lo meritava.