Il gioco che nel 1990 prese l’idea di un quiz televisivo e la mescolò con il Vietnam, un’arena gladiatoria e un trip di testosterone pixelato. Pubblicato da Williams e firmato da Eugene Jarvis (lo stesso folle genio dietro Robotron: 2084 e Defender), Smash T.V. è una di quelle esperienze che sembrano urlare contro il giocatore:
“Vuoi vincere? Bene, allora muori provandoci.”
Un twin-stick shooter brutale, iper-violento e ironico, dove il premio è “denaro, auto e bellissime ragazze”… e la punizione è la morte istantanea, moltiplicata per cento.
In un’epoca in cui i cabinati da sala volevano solo prosciugare gettoni e riflessi, Smash T.V. trasformò il massacro in spettacolo, anticipando la fame di reality show e la critica alla cultura dell’intrattenimento estremo. Prima di Battle Royale, prima di The Hunger Games, c’era già lui: il concorrente senza nome che affrontava ondate di nemici e boss improbabili con la sola speranza di sentire, a fine livello, la frase più dolce mai detta da un presentatore digitale:
“I’d buy that for a dollar!” (Lo comprerei per un dollaro!)
Quando Smash T.V. sbarcò nelle sale giochi nel 1990, il panorama videoludico era in piena mutazione. Le case come Capcome Konamistavano ridefinendo il concetto di azione con picchiaduro e run’n’gun sempre più frenetici, mentre l’arcade occidentale cercava la sua identità tra il caos nipponico e la nostalgia degli shooter anni ’80. Williams, già celebre per i flipper e per i titoli dal gusto “metallico” come NARC, trovò la sua nicchia: l’eccesso. E Smash T.V. era l’apoteosi di quell’estetica.
Figlio diretto di Robotron: 2084 (di cui eredita il sistema di controllo a doppia levetta e la logica “sopravvivi finché puoi”), il gioco ne amplifica ogni aspetto: più nemici, più armi, più caos, più schermi lampeggianti che sembrano urlare “Game Over” ancor prima di iniziare. Ma c’è anche un elemento narrativo, per quanto delirante: il futuro distopico in cui i giochi televisivi sono diventati arene mortali. Un concetto che, a rivederlo oggi, anticipa non solo la satira di Running Man o Black Mirror, ma anche la dinamica ludica dei roguelike moderni, dove la morte è routine e la ricompensa è sopravvivenza.
Se gli arcade degli anni ’80 chiedevano di “migliorarsi”, Smash T.V. chiedeva solo una cosa: resistere un minuto in più. Un manifesto brutale del videogioco come performance, dove il sangue è pixel, ma la tensione è terribilmente reale.
L’ambientazione di Smash T.V. è un futuro tanto “prossimo” quanto assurdo, in cui la televisione è diventata l’oppio del popolo e il sangue è l’audience share. Un reality show mortale, trasmesso in diretta planetaria, dove concorrenti armati fino ai denti affrontano ondate di mutanti, robot, e carne da pixel per vincere premi che sembrano usciti da un catalogo di eccessi anni ’80: contanti, automobili, e — immancabili — le “bellissime ragazze”. Una parodia così sfrontata del consumismo da sembrare, paradossalmente, perfettamente credibile.
Ogni arena è un cubo di follia, un set televisivo in cui i muri grondano proiettili e i pavimenti sono tappezzati di cadaveri digitali. Non esistono cieli, orizzonti o vie di fuga: solo stanze illuminate da luci al neon e condite da applausi pre-registrati, come se la morte stessa fosse una gag da prime time. Il presentatore, con il suo sorriso da pubblicità di chewing gum e il carisma di un incubo corporate, incarna l’anima del gioco: una società che applaude al massacro perché “è solo intrattenimento”.
In fondo, Smash T.V. non racconta un futuro: racconta la TV di oggi, solo con meno filtri e più granate.
Luci, sangue e synth: lo spettacolo secondo Smash T.V.
Visivamente, Smash T.V. è l’incarnazione dell’eccesso anni ’90: colori acidi, animazioni frenetiche e un’orgia di pixel che riempiono lo schermo fino all’ultimo byte disponibile. Ogni stanza è un mosaico di caos organizzato — nemici, proiettili, esplosioni e premi che scintillano come slot machine impazzite. Non esiste un vero “respiro visivo”: tutto lampeggia, tutto spara, tutto esplode. È la versione videoludica di uno spot energetico che dura troppo, ma a cui non riesci a distogliere lo sguardo.
I personaggi sono caricature perfette della cultura televisiva e consumistica del tempo: il presentatore col sorriso da pubblicità di rasoi, i concorrenti in tuta da guerra come action figure impolverate, i boss che sembrano usciti da un incubo di Tetsuo: The Iron Man diretto da un regista di American Gladiators. Ogni pixel trasuda un’ironia greve, quasi punk, come se Williams avesse preso l’immaginario pop e lo avesse triturato dentro un cabinato.
Sul fronte sonoro, Smash T.V. è puro martellamento sintetico. Il sound design non accompagna l’azione: la spinge giù da una scogliera. Le mitragliate hanno il timbro metallico di un flipper impazzito, le esplosioni sono cortocircuiti sonori, e la voce del presentatore — quel “Big Money! Big Prizes!” scandito con entusiasmo da psicopatico — è diventata un mantra per chiunque abbia passato ore a bestemmiare contro il game over. Il tutto sostenuto da una colonna sonora elettronica ossessiva, tanto minimale quanto ipnotica, che ricorda i jingle pubblicitari impiantati direttamente nel cervello.
In sintesi, Smash T.V. non ti chiede di guardarlo: ti acceca. Non ti invita ad ascoltarlo: ti perfora i timpani. Ed è proprio lì, in quell’esagerazione audiovisiva senza compromessi, che trova la sua identità. Un videogioco che non vuole essere elegante — vuole essere rumore.
Sopravvivi, accumula, muori: il gameplay di Smash T.V.
Giocare a Smash T.V. è come essere l’ultimo superstite in un Black Friday post-apocalittico. Ti muovi con una levetta, spari con l’altra, e tutto il resto è pura, gloriosa sopravvivenza. La formula “twin-stick shooter” portata all’estremo: niente pause, niente tattiche complesse, solo riflessi e un istinto di sopravvivenza degno di un ratto da laboratorio. Ogni stanza è un’arena chiusa, una trappola dove l’unica via d’uscita è attraverso una montagna di cadaveri digitali.
La progressione è semplice e sadica: entri, stermini, raccogli premi (soldi, lingotti, televisori, tostapane — perché sì, anche in un bagno di sangue serve un elettrodomestico nuovo), e poi passi alla stanza successiva. La struttura di Smash T.V. è quella di un incubo metodico: niente scrolling, niente panorami, solo una successione di stanze chiuse che si aprono come ferite.
Ogni livello è una mappa vista dall’alto — una sorta di schema televisivo dell’orrore — in cui il giocatore avanza da una schermata all’altra scegliendo la direzione su un tracciato simile a un labirinto. È un design che oggi potremmo definire “room-based”, ma nel 1990 sembrava una fusione blasfema tra Bubble Bobble e RoboCop: l’innocenza della progressione a stanze fisse contaminata dalla brutalità metallica di un mondo distopico.
Ogni camera diventa un microcosmo di violenza: entri, si chiudono le porte, partono le ondate. Sopravvivi, raccogli premi, e la mappa ti offre un bivio — vai a sinistra verso un’altra carneficina o a destra per… un’altra carneficina, ma con più esplosioni. Questa struttura, apparentemente ripetitiva, in realtà crea un ritmo ossessivo e ipnotico, una coreografia del caos in cui la prevedibilità dello schema serve solo a esaltare l’imprevedibilità dell’azione.
C’è qualcosa di perversamente geniale in questa scelta: Smash T.V. trasforma la staticità della schermata fissa in tensione pura. Nessuna fuga, nessuna illusione di progresso lineare — solo un eterno ritorno del massacro, scandito da una mappa che sembra sorriderti con sadico compiacimento. In un mondo di scorrimenti fluidi e illusioni di libertà, Williams decise che il vero brivido stava nel chiuderti dentro.
L’azione non concede tregua, e la difficoltà è calibrata per punire qualsiasi esitazione. Non è un gioco da “imparare”: è un gioco da sopravvivere. Ogni power-up — mitragliatrici, shuriken, bombe intelligenti — dura pochi secondi, giusto il tempo di illuderti di avere il controllo prima che il gioco ti ricordi chi comanda davvero.
Il ritmo è così serrato da diventare trance: un loop di morte e rinascita che oggi suona familiare a chi ama i roguelike moderni (The Binding of Isaac, Enter the Gungeon), ma che nel 1990 era pura follia sperimentale. Smash T.V. anticipava il concetto di “flow” prima che qualcuno lo teorizzasse: entri in uno stato mentale in cui reagisci senza pensare, spari senza mirare, muori senza lamentarti.
Se c’è una cosa che Smash T.V. non conosce, è la moderazione. Ogni stanza trabocca di nemici come un formicaio impazzito, un’orda che sembra non rispondere a logiche di spawn ma a un istinto primordiale di sterminio reciproco. Droni, mutanti, soldati in tuta, cyborg, carne da pixel in tutte le varianti cromatiche: il gioco ti sommerge senza pietà, come se ogni frame fosse progettato per farti gridare “basta!” — e poi, ovviamente, spingerti a inserire un altro gettone.
È una filosofia del “tanto è meglio”, portata al punto di rottura. Non si tratta solo di difficoltà: è una dichiarazione estetica. La violenza non è più un mezzo, ma un elemento di scenografia, parte integrante del ritmo visivo. Mentre altri arcade dell’epoca cercavano equilibrio e pattern riconoscibili, Smash T.V. sceglie la saturazione totale: una pioggia di carnefici che trasforma ogni stanza in un inferno geometrico di pixel e proiettili incrociati.
La cosa più beffarda? Nonostante l’assurdità del numero, il caos è leggibile. Jarvis e soci erano maestri nel dosare l’impossibile: il giocatore è sempre sull’orlo del collasso, ma mai del tutto cieco. È quella linea sottilissima tra frustrazione e adrenalina che separa un game over dalla dipendenza. Alla fine, non giochi contro i nemici: giochi dentro di loro, come se fossi un singolo elettrone in un temporale di sprite impazziti.
E quando finalmente arrivi a un boss — ammassi di carne, acciaio e pixel urlanti con nomi da show business come Mutoid Man — capisci che la logica del gioco è tutta lì: spettacolo, eccesso, e un sadismo che ti fa sorridere anche mentre conti le vite rimaste. Smash T.V. non è un’esperienza equilibrata: è un test di resistenza nervosa mascherato da arcade. Eppure, nel suo delirio, è perfettamente onesto.
Not Enough Keys: il segreto che non dovevi trovare
Tra le mille follie di Smash T.V., poche storie raccontano meglio la mentalità arcade dei primi anni ’90 di quella della leggendaria “stanza segreta” — o meglio, della stanza assente. Sullo schermo appariva una scritta tanto lapidaria quanto misteriosa: “Not Enough Keys!”. Sembrava l’indizio di un livello nascosto, un mistero da scoprire a forza di gettoni e bestemmie. In realtà, il messaggio era solo la beffa finale di un sistema pensato per un contenuto che… non esisteva.
La verità è che nella prima versione del cabinato arcade, la celebre Pleasure Dome — la stanza bonus promessa come ricompensa per chi avesse raccolto abbastanza chiavi — non era stata ancora implementata. Non per errore, ma per pura, disarmante arroganza: alla Midway erano convinti che nessuno sarebbe mai arrivato così lontano. Il gioco era talmente difficile, talmente punitivo, che l’idea di un giocatore capace di sopravvivere fino al finale sembrava più fantascientifica di un cyborg presentatore di quiz.
Ma i giocatori, si sa, sono testardi come pochi. Qualcuno ci arrivò davvero, e la delusione fu epica: dopo ore di massacri e una collezione di chiavi degna di un fabbro infernale, si ritrovò di fronte a un messaggio di errore travestito da sfida. Solo dopo le proteste di arcade operator e fan, Williams decise di rilasciare una revisione del gioco che inseriva finalmente la Pleasure Dome: un tripudio di pixel, premi e ragazze digitali che sembrava più una presa in giro che un premio.
Così nacque una delle più assurde “stanze segrete” della storia dei videogiochi: non un mistero da scoprire, ma un bug di presunzione umana. E a suo modo, perfettamente coerente con lo spirito di Smash T.V. — un gioco che ti promette tutto, tranne la possibilità di vincere facilmente.
Io Smash T.V. non l’ho solo giocato: l’ho consumato, letteralmente.
La mia versione era quella per Super Nintendo, una conversione sorprendentemente fedele, nonostante l’assenza della doppia levetta tipica del cabinato. Nintendo, con la sua solita furbizia ergonomica, aveva risolto il problema mappando la direzione di fuoco sui tasti frontali: un sistema che sulla carta sembrava un incubo, ma che in realtà — dopo qualche minuto di delirio coordinativo — diventava naturale come respirare. O meglio: come sparare in otto direzioni mentre ti scagliavano contro un esercito di psicopatici digitali.
Con un amico di vecchia data — oggi coautore di questa stessa rubrica — passavamo pomeriggi interi davanti a quella cartuccia grigia, fino a farla quasi fondere nel vano del Super Nintendo. Ogni partita era una sfida personale, una maratona di riflessi, una dichiarazione di guerra al concetto stesso di “continua”. E soprattutto, una caccia ossessiva alla mitica Pleasure Dome, di cui avevamo letto su qualche rivista americana. Lì, promettevano, ci sarebbe stata la ricompensa finale per i migliori, i sopravvissuti, gli eletti del joystick.
Peccato che su SNES quella stanza non esistesse proprio. Non un bug, non un errore: semplicemente, non fu mai inserita nella conversione. Noi, ignari di questa verità crudele, la cercammo per anni — convinti che bastasse un’altra run, un altro livello, un’altra combinazione di chiavi per aprire il portale proibito del piacere digitale. Invece, niente. Solo altre stanze, altri nemici, altri “Game Over”.
A ripensarci oggi, era quasi poetico: Smash T.V. ci aveva insegnato, a modo suo, la più grande lezione del videogiocatore anni ’90 — che la ricompensa non è il premio, ma la follia di continuare a cercarlo.
Total Carnage: il seguito senza il carisma del massacro
Nel 1992 arrivò Total Carnage, seguito spirituale, che provò ad alzare la posta con nuovi scenari, un tono più “militare” e livelli a scorrimento. Un tentativo onesto di evoluzione, ma che finì per smarrire l’identità del predecessore. L’ambientazione bellica sostituì la satira televisiva con un’azione più convenzionale, e l’abbandono della schermata fissa — cuore pulsante del caos controllato di Smash T.V. — tolse parte di quella tensione claustrofobica che lo rendeva unico. Il risultato? Più carneficina, meno carattere.
Eredità di sangue e pixel
Guardando oggi Smash T.V., è difficile non riconoscere quanto la sua follia abbia lasciato un’impronta profonda — non solo nel design dei twin-stick shooter, ma nella cultura videoludica tutta. Era un gioco figlio del suo tempo, certo, ma anche un profeta inconsapevole: anticipava la fame di adrenalina dei bullet hell, la struttura “room-based” dei roguelike, e perfino la satira ultraviolenta che anni dopo avrebbe reso Hotline Miami un cult. Dove gli altri arcade cercavano gloria, Smash T.V. cercava sopravvissuti.
Il suo DNA è ovunque: nei corridoi claustrofobici di The Binding of Isaac, nelle arene psichedeliche di Geometry Wars, nei flussi infiniti di proiettili di Enter the Gungeon. Ma più che un titolo da cui copiare, Smash T.V. è rimasto un manifesto. Un gioco che rideva del consumismo, del reality e dello stesso giocatore, costringendoti a chiederti se eri tu a controllare il pad o se era lui a controllare te.
Lo ammetto: il mio cuore videoludico batte quasi sempre in giapponese. Nel mio personale bilancio da giocatore, il 95% dei titoli che amo arriva da oriente — dove il game design è disciplina zen, il ritmo è un’arte e il gameplay è sacro quanto la trama è accessoria. Gli occidentali, al contrario, li ho sempre visti come narratori brillanti ma designer disordinati: grandi storie, pessime mani.
Eppure, Smash T.V. — e la scuola Midway in generale (qualcuno ha detto Mortal Kombat?) — è una di quelle rare e gradite eccezioni alla mia teoria. Un gioco americano fino al midollo, eppure costruito con una precisione quasi nipponica: controlli impeccabili, difficoltà calibrata al millimetro, loop di gioco limpido e ossessivo. Nessuna introspezione, nessuna morale, solo un design puro e feroce che ti tiene incollato al pad per ore.
E poi, diciamolo: la sua estetica sopra le righe, quel presentatore da spot postatomico e il suo urlato “Big Money! Big Prizes!”, sono diventati parte del linguaggio videoludico — un’eco che ancora risuona nei titoli che scelgono l’ironia come arma di sopravvivenza.
Oggi Smash T.V. non è solo un reperto arcade, ma un promemoria: che la violenza può essere satira, il caos può avere ritmo, e la frustrazione può essere una forma d’arte.
E forse è proprio per questo che, a distanza di trent’anni, ogni volta che lo rivediamo partire, un pensiero ci attraversa la mente