Mentre Final Fight (1989) stava riscrivendo le regole del picchiaduro a scorrimento con la grazia di un tir in discesa libera, arrivò The Combatribes. Un titolo Technos del 1990 che, a prima vista, sembrava solo un cugino pompato di Double Dragon, ma che in realtà cercava di spingersi più in là: più mosse, più ritmo, più tecnica. Un beat ‘em up che voleva che tu pensassi mentre picchiavi, non solo che pestassi pulsanti a tempo di synth.
Eppure, in quel periodo cruciale per il genere, la filosofia Technos — fatta di precisione, timing e brutalità ragionata — si trovò a fronteggiare la scuola Capcom, quella del “pugno largo” e della spettacolarità accessibile. Indovinate chi ha vinto?
The Combatribes resta così una specie di fossile combattivo: il canto del cigno di una visione più complessa e meno accomodante del picchiaduro, sepolta sotto una valanga di sprite enormi e urla di “Haggar Smash!“.
La genesi: quando Technos inventò tutto
Quando si parla di Technos Japan, si parla di una casa che ha letteralmente inventato il picchiaduro a scorrimento. Prima di loro, menarsi in un videogioco era una questione da schermata fissa: un ring, due ometti, zero spazio per la fantasia. Oppure c’erano titoli come Kung-Fu Master o Vigilante, dove l’azione si riduceva a un balletto di riflessi: due direzioni, due tasti, e via a distribuire calci come un metronomo. Erano giochi di ritmo, non di spazio. L’eroe avanzava in linea retta come su un tapis roulant, mentre i nemici arrivavano a turno per prendere la loro dose di dolore programmato.
Poi arrivò Double Dragon (1987), e il mondo vide due fratelli — Billy e Jimmy Lee — menare delinquenti a ripetizione lungo strade, fabbriche e ponti, con una naturalezza che oggi diamo per scontata. Quella sensazione di “cammino e distruzione” era nuova, liberatoria, quasi cinematografica.
Technos aveva preso la struttura rudimentale di Renegade (già loro, nel 1986) e l’aveva raffinata: spazio tridimensionale su un piano bidimensionale, prese, calci, armi improvvisate e soprattutto una fisica che dava peso ai colpi. Ogni pugno in Double Dragon aveva un piccolo ritardo, una “messa in scena” che restituiva impatto. Non era solo un gioco di riflessi: era un gioco di ritmo e posizionamento.
Quel sistema, apparentemente grezzo, nascondeva un’anima quasi da arti marziali digitali. Non bastava premere pulsanti: bisognava leggere il nemico, trovare l’apertura, e punire. È il motivo per cui Double Dragon ha avuto un tale impatto: non solo perché era cooperativo, non solo perché suonava come un film di strada anni ’80, ma perché ti faceva sentire il peso di ogni scontro, come se ogni colpo fosse meritato.
Technos, con quel titolo, aveva tracciato una via: un beat ‘em up come danza brutale, dove la tecnica contava più della potenza. E da lì in poi avrebbe continuato a credere che il picchiaduro dovesse essere un’arte marziale, non un’esplosione di pixel — una filosofia che culminerà (e morirà) proprio con The Combatribes.
Perché già al momento dell’uscita, quella filosofia si sarebbe trovata a fare i conti con una nuova scuola, più barocca e immediata — quella Capcom.
Due scuole, una rissa: Technos contro Capcom
Negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90, il beat ‘em up era il re delle sale giochi, ma non tutti i regni si governavano allo stesso modo.
Da una parte c’era Technos Japan, la bottega artigiana del pugno digitale. I loro giochi non volevano farti sentire un supereroe, ma un tizio che sapeva davvero come menare. Il loro beat ‘em up era fatto di timing, distanze, rischi calcolati: ogni colpo aveva una finestra, ogni presa richiedeva un istante di calma nel caos. Non bastava premere, bisognava capire. Quando atterravi un nemico in Double Dragon o lo scaraventavi via in The Combatribes, sentivi che c’era fisica, c’era peso, c’era un pensiero dietro il dolore.
Technos trattava la rissa come una scienza marziale. Pochi fronzoli, zero effetti speciali, tanta sostanza. Era un picchiaduro che ti chiedeva di stare sul pezzo — non di riempire lo schermo di pugni, ma di scegliere quello giusto, nel momento giusto.
Dall’altra parte del ring, Capcom stava preparando il suo spettacolo pirotecnico. Se Technos ti chiedeva disciplina, Capcom ti offriva potenza pura e gratificazione istantanea. Con Final Fight nel 1989, il combattimento smise di essere un esercizio di misura e divenne un carnevale di colpi enormi, suoni fragorosi e personaggi che occupavano mezzo schermo. Niente più calcoli di distanza: bastava avvicinarsi e premere forte — ci pensava il game design a farti sentire onnipotente.
Capcom trasformò la rissa in intrattenimento di massa: Haggar non era un tecnico, era un wrestler-sindaco che risolveva i problemi a suon di piledriver. Tutto era più grande, più rumoroso, più generoso con il giocatore. Ogni input produceva un’esplosione di feedback, ogni nemico volava come in un cartone animato.
Dove Technos chiedeva rispetto per la tecnica, Capcom rispondeva con la democratizzazione del pugno: tutti potevano sentirsi forti, anche senza capire davvero cosa stessero facendo. E il pubblico, manco a dirlo, se ne innamorò.
Il bilanciamento: dio contro mortale
Capcom costruiva i suoi picchiaduro come spettacoli di dominio: tu eri il protagonista indiscusso, e i nemici solo comparse in fila per farsi gonfiare. In Final Fight, affrontare cinque, sei, otto avversari contemporaneamente non era un problema — era il punto. Il bilanciamento era tutto dalla tua parte: colpi larghi, hitbox generose, invincibilità tattica nelle prese. Il giocatore doveva sentirsi invulnerabile nel caos, un’icona che travolge masse di criminali come un’onda di pixel ben animata.
Technos, invece, ragionava in termini opposti: due nemici a schermo erano già un campo di battaglia. In Double Dragon, la gestione dello spazio era vitale — se ti incastravano in mezzo, eri fritto. Le prese avevano tempi precisi, i colpi dovevano essere “sentiti” e alternati con intelligenza. Anche solo girarsi nel momento sbagliato poteva costarti una vita. Ogni scontro era un duello mascherato da rissa, dove l’aggressività cieca veniva punita senza pietà.
Il calcio volante: la cartina di tornasole
Il calcio volante è praticamente la dimostrazione perfetta del contrasto tra le due scuole.
In Final Fight, è la mossa della sicurezza: un’area d’impatto enorme, invincibilità durante l’animazione e una capacità distruttiva di massa. Lo usi, atterri cinque teppisti in un colpo solo e, al massimo, ti sposti di mezzo passo per ricominciare. È un gesto di potere gratuito, una coreografia pensata per farti sentire in controllo assoluto del caos. Non importa la precisione: basta pigiare al momento giusto, e lo spettacolo è servito.
In Double Dragon, invece, il calcio volante è una mossa di sopravvivenza, non di dominio. La finestra d’impatto è minuscola, il tempismo chirurgico: se sbagli di un pixel o di un frame, resti scoperto e vieni punito senza pietà. È una manovra difensiva, più che offensiva, utile per allontanare un nemico troppo vicino o guadagnare spazio, non per fare pulizia. È la mossa del giocatore cauto, non del guerriero invincibile.
Due calci identici sulla carta, ma con filosofie diametralmente opposte: in Capcom, potere senza rischio; in Technos, rischio come essenza del potere.
Arsenale vs semplicità
Technos aveva un approccio quasi ossessivo al ventaglio di possibilità del giocatore. In Double Dragon ogni input, ogni combinazione di direzione e tasto, dava luogo a qualcosa di diverso: gomitate, prese, calci alti, calci bassi, proiezioni, colpi di rimbalzo. Non tutto era indispensabile — anzi, molte mosse erano situazionali o difficili da eseguire — ma la sensazione era quella di avere un arsenale complesso da padroneggiare, non un set preconfezionato da spammare.
Capcom fece l’opposto. In Final Fight le mosse sono pochissime, ma funzionano sempre: attacco base, salto-attacco, presa automatica. Tutto calibrato per scorrere fluido e spettacolare, senza chiedere troppo al giocatore. È il design della semplificazione intelligente: taglia il superfluo, amplifica la soddisfazione immediata. Dove Technos cercava profondità, Capcom puntava alla coerenza.
E poi arrivò The Combatribes, che provò a spingersi oltre, introducendo perfino le mosse a terra — una novità assoluta per l’epoca. Non solo potevi finire un avversario già sdraiato, ma potevi farlo in modi diversi: pugni, calci, o persino il celebre giant swing, una presa circolare che trasformava il nemico in un’arma contundente vivente. Ed era più di una trovata estetica: in mezzo a più avversari, quella mossa diventava una vera strategia di crowd control.
Technos voleva darti strumenti, non scorciatoie. E The Combatribes ne è la dimostrazione estrema: un gioco che ti metteva in mano un arsenale tecnico potentissimo, ma solo se avevi la pazienza di capirlo.
Le prese: automatismo contro conquista
Le prese sono forse il punto più eloquente di tutto il discorso — lì si vede proprio il diverso DNA delle due scuole.
In casa Capcom, la presa è automatica: ti avvicini al nemico e zac, lo afferri. Non serve tempismo, non serve preparazione. È una scorciatoia elegante che semplifica il flusso del combattimento. Peccato che poi anche i boss abbiano prese, e lì inizia la farsa: due sprite che si abbracciano nel caos, e tu non hai idea di chi stia sollevando chi finché non voli via come un sacco di carne malmenato. È il regno del “vediamo chi il gioco decide di favorire”. Final Fight è pieno di questi abbracci tossici — momenti in cui il sistema sembra lanciare una monetina per decidere chi finirà spalmato sull’asfalto.
Technos, invece, trattava la presa come una ricompensa, non un automatismo. In Double Dragon, prima di poter afferrare un nemico dovevi “domarlo”: due o tre colpi ben assestati per spezzargli la guardia, poi — e solo allora — potevi agguantarlo per un knee smash o una proiezione degna di Bruce Lee. Era un linguaggio chiaro: la presa arrivava come conseguenza logica di un vantaggio costruito, non come shortcut. Non era un’esplosione casuale di animazioni, ma un cambio di ritmo conquistato con fatica.
Capcom ti faceva sentire potente subito. Technos ti chiedeva di meritarti la potenza.
Controlli: combo automatiche contro pesantezza ragionata
Un’altra differenza sostanziale, e spesso sottovalutata, è proprio nei controlli — il modo in cui le due scuole interpretavano la fisicità del combattimento.
Capcom, con Final Fight, semplifica tutto a un solo tasto di attacco. Basta martellarlo, e il personaggio sforna automaticamente una combo completa: una sequenza di pugni e calci che termina quasi sempre con un colpo finale, spettacolare e ineluttabile. Il nemico, una volta incastrato nella combo, non può più reagire: è un sacco da boxe animato che subisce la coreografia fino alla fine. È fluido, è appagante, è perfettamente ritmato per la monetina da sala giochi — ma toglie al giocatore qualsiasi finezza. Tutto avviene “da solo”, tu devi solo restare nel flusso.
Technos seguiva la filosofia opposta. Più tasti, più variabili, più margine d’errore. I colpi erano lenti, pesanti, con un senso di inerzia quasi fisico: ogni pugno sembrava scaturire da muscoli e ossa, non da script. Non c’era una combo automatica, ma una sequenza da costruire col ritmo giusto. Saltare, colpire, afferrare: tutto richiedeva intenzione. E quella lentezza apparente era il prezzo della credibilità. Il combattimento non era una danza, ma un duello.
Capcom ti permetteva di “entrare in trance da pestaggio”, mentre Technos ti costringeva a pensare tra un colpo e l’altro. Due filosofie, due esperienze: una fluida come un film d’azione, l’altra ruvida come una rissa vera.
L’illusione del potere (e il portafogli vuoto)
Attenzione però: tutto questo discorso sulla “facilità” Capcom rischia di essere fuorviante. Perché sì, Final Fight e soci ti fanno sentire una divinità del ring… ma una divinità di cristallo. Il tuo personaggio è devastante, capace di stendere cinque nemici in un respiro, ma anche fragilissimo: bastano pochi colpi ben piazzati, una granata o un abbraccio di troppo, e sei di nuovo con la mano sul portafogli pronto a inserire un’altra moneta.
Capcom ti illude di dominare la folla, ma sotto quella patina di potenza c’è un design spietato, mangiasoldi puro. Ogni gruppo di nemici è pensato per metterti in trappola, ogni boss ha pattern che forzano l’errore. E il fatto che il tuo alter ego sia fortissimo amplifica la frustrazione: più grande è il potere, più bruciante è la caduta.
Certo, poi ci sarebbero da discutere i “trucchetti da baraccone” — i nemici che appaiono alle spalle, i frame d’invulnerabilità che non lo sono, le hitbox sospette — ma quella è un’altra storia. E forse anche un altro gettone.
Capcom costruiva fantasie di potenza, Technos esercizi di sopravvivenza. Dove la prima ti spingeva a entrare nel mucchio con fiducia cieca, la seconda ti educava alla prudenza, alla lettura del campo, all’arte dell’adattamento. E forse è per questo che oggi ricordiamo Final Fight come un’icona immediata, ma Double Dragon — e più tardi The Combatribes — restano nei ricordi di chi cercava nel picchiaduro una sfida, non solo uno sfogo.
The Combatribes: il canto del cigno
The Combatribes è l’ultimo ruggito della scuola Technos, la sua dichiarazione d’intenti definitiva prima di essere inghiottita dall’ondata Capcom. Un gioco che prende tutto ciò che la casa aveva costruito negli anni — da Renegade a Double Dragon — e lo porta all’estremo, fino a trasformarlo in una sorta di manuale di rissa urbana interattivo. È, senza mezzi termini, la summa della filosofia Technos, e a mio avviso uno dei sistemi di combattimento più completi e convincenti mai creati per un picchiaduro a scorrimento.
Qui le mosse non sono decorazioni: sono strumenti, ognuna con un suo peso, un suo ritmo, un suo momento ideale. Calci, pugni, prese, proiezioni, schivate… e poi il vero colpo di genio: i colpi a terra. Una rivoluzione silenziosa. Per la prima volta potevi continuare a menare un avversario già a terra, con varianti brutali che rendevano il combattimento più sporco e realistico. Un linguaggio da strada, non da sala giochi patinata.
E naturalmente c’è lui, il giant swing: l’avversario afferrato per i piedi e fatto roteare come un martello umano, devastante contro gruppi interi. Una mossa che non solo è iconica, ma risolve uno dei problemi storici di Technos — la gestione dei nemici multipli — dando finalmente al giocatore un mezzo tecnico per emergere dal caos senza tradire l’identità del sistema.
The Combatribes è sporco, feroce, senza compromessi. Un gioco che non punta all’eleganza né all’accessibilità, ma alla sensazione pura del combattimento. È il punto più alto — e insieme il limite invalicabile — di una filosofia che chiedeva al giocatore attenzione, precisione, controllo.
Eppure, ed è qui che il paradosso brucia di più, The Combatribes è anche un gioco profondamente imperfetto. Un diamante grezzo… senza la parte “diamante”. Le idee sono brillanti, il sistema di combattimento è un colosso tecnico, ma tutto il resto sembra uscito da una demo interna, uno scheletro di ciò che avrebbe potuto essere.
Gli stage sono pochissimi e brevissimi, tanto da farti pensare che qualcuno, in fase di sviluppo, abbia perso metà del progetto dietro al cabinato. Li inizi, li attraversi, ed è già finita: la progressione non decolla mai, non c’è crescita, non c’è ritmo. Sembra quasi che il combat system, enorme e muscoloso, sia stato incollato sopra un gioco che non aveva lo spazio per sfruttarlo davvero.
Le boss fight poi sono il manifesto dell’ironia tragica di Technos: design visivo fantastico — ogni boss ha personalità, spicca, si ricorda — ma dinamiche scadenti, spesso caotiche o mal calibrate. Molti scontri finiscono per ridursi a routine sporche, pattern inadatti al sistema tecnico che il gioco prova a esaltare. Il potenziale c’è, si vede, urla… ma resta intrappolato in un’esecuzione frettolosa.
Il risultato è un titolo che sembra un prototipo, un concept potentissimo che avrebbe avuto bisogno di altri sei mesi, forse un anno, per diventare il capolavoro che prometteva. Un picchiaduro che mostra quanto lontano potesse spingersi la filosofia Technos, ma anche quanto poco tempo le restasse per perfezionarsi.
Un canto del cigno orgoglioso, e destinato a rimanere un capolinea.
E alla fine, chi è rimasto in piedi?
The Combatribes resta quindi la testimonianza più chiara di una verità scomoda: la via Technos, quella tecnica, ragionata, dura e un po’ ostinata, si è spinta al suo limite proprio mentre il mercato stava correndo dall’altra parte. Mentre Technos costruiva sistemi profondi, pieni di variabili, con mosse situazionali e scelte da ponderare, Capcom sfondava la porta principale con la sua filosofia dell’impatto immediato: combo automatiche, hitbox generose, ritmo forsennato e un’estetica che urlava “gioca ancora”.
E il pubblico, inutile girarci intorno, ha scelto.
Non la complessità. Non la tecnica. Non la rissa sporca che devi imparare col sudore.
Ha scelto la potenza istantanea, la chiarezza, la leggibilità, la sensazione di essere un titano nel caos. La scuola Capcom è diventata lo standard, il riferimento, il DNA dominante del genere. Oggi ci sono centinaia di cloni di Final Fight più o meno riusciti, tanto da essere venuti a noia anche a chi, come me, mangia pane e picchiaduro a colazione. Mentre Technos, con The Combatribes, ha raggiunto insieme il suo apice e il suo capolinea: un sistema di combattimento straordinario intrappolato in un gioco incompleto, ultimo grido di un modo di pensare il beat ‘em up che non avrebbe più trovato spazio.
Il canto del cigno Technos non è solo quello di The Combatribes: è quello di una filosofia che puntava sulla maestria, non sulla spettacolarità. Una filosofia bellissima, ma fragile — troppo fragile per sopravvivere alla nuova era dei pugni larghi e delle masse di nemici da spazzare via.
Prima di sparire definitivamente dai radar, Technos fece un ultimo tentativo disperato: Super Double Dragon, esclusiva SNES e manifesto estremo della sua filosofia. Più tecnico, più lento, più stratificato, più tutto. Con parate manuali, caricamenti di energia, prese avanzate… un vero trattato di arti marziali travestito da picchiaduro.
Peccato che fosse anche meno divertente, terribilmente incompleto e sviluppato di corsa: mancava persino il boss finale, come se qualcuno avesse staccato la spina a metà turno dicendo “basta, non ce la faccio più”. Il suo insuccesso fu l’ultimo chiodo sulla bara di quel modo di intendere il combattimento: la prova definitiva che il pubblico non cercava complessità, ma impatto.
E così, mentre Technos insegnava al giocatore a respirare, contare i frame e meditare sull’angolo perfetto per una gomitata, Capcom arrivava, spalancava la porta e chiedeva: “Scusa, vuoi divertirti?”. Il mercato rispose “Sì” e non si voltò più indietro.
Oggi The Combatribes, Super Double Dragon e tutta la scuola Technos restano come quei vecchi maestri di arti marziali nei film: austeri, pieni di saggezza, potentissimi… e puntualmente presi a calci dall’eroe giovane e tamarro che vende più biglietti al botteghino.
Ma ehi: tra noi nostalgici, la cintura nera del beat ‘em up tecnico la porteranno sempre loro. Capcom ha vinto la guerra del pubblico, certo — ma Technos ha vinto quella del cuore (e delle gomitate ben piazzate).