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Essenza Ludica: Quando un platform ti tiene a galla: il lato terapeutico di Mario 3D World

Su Essenza Ludica si parla di Super Mario 3D World e benessere mentale: una storia vera su come un videogioco può offrire conforto.

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Super Mario 3D World è uno di quei titoli che sembravano destinati a rimanere intrappolati nel purgatorio dorato del Wii U: amato da chi l’aveva giocato, ignorato dal resto del mondo perché — diciamolo — la console Nintendo meno capita dell’ultimo ventennio non era esattamente il posto ideale per un capolavoro.

Quando uscì nel 2013, il panorama videoludico stava cambiando pelle: PS4 e Xbox One inauguravano l’era dell'”open world a tutti i costi”, i tripla A lucidavano muscoli e shader, e il povero Wii U arrancava come un Toad senza power-up. In questo clima da transizione un po’ schizofrenica, Nintendo tirò fuori un platform isometrico lucidissimo, erede di 3D Land, che preferiva l’invenzione geometrica al gigantismo a mappa aperta. Un gioco che ti metteva davanti livelli cesellati con precisione ossessiva, una cooperativa irresistibile e quell’estetica da laboratorio Nintendo in stato di grazia.

Sul piano critico fu un trionfo quasi unanime. Sul piano commerciale… fece quello che poteva. Con circa sei milioni di copie vendute, 3D World diventò uno dei titoli più popolari del Wii U, ma il problema era la console stessa: un palco mezzo vuoto, incapace di dare al gioco l’esposizione che meritava. Per un Mario tridimensionale, un potenziale da 15-20 milioni buttato su una base installata di 13 scarsi era una missione impossibile. Non era il gioco ad aver sbagliato qualcosa; era il pubblico potenziale rimasto fuori dalla porta.

Quando Nintendo ha deciso di dargli una seconda vita su Switch, con l’edizione del 2021 accompagnata dall’espansione Bowser’s Fury, il mondo ha finalmente fatto la conoscenza che avrebbe dovuto fare anni prima. Le recensioni internazionali — entusiaste fino all’imbarazzo — parlavano di “trionfo”, “gioiello di precisione”, “laboratorio di creatività in formato platform”. Insomma: non era l’ennesimo Mario, era il Mario che rischiava di non essere visto.

Un design che ti tiene per mano (nel senso buono)

La struttura di Super Mario 3D World è la prova vivente che Nintendo, quando vuole, riesce a trasformare la geometria in intrattenimento puro. Niente open world dispersivi, niente hub contemplativi: qui si torna a un’impostazione a mondi e livelli, old school ma filtrata attraverso la lente tridimensionale estremamente ordinata inaugurata da 3D Land.

Ogni stage è un’idea: compatta, leggibile, autoconclusiva, progettata per durare il tempo giusto prima di sparire e lasciare spazio alla successiva. È un design “a vignette”, dove il ritmo è dato dal continuo susseguirsi di concept: un livello sul vento, uno sulle piattaforme trasparenti, uno sui doppelgänger, uno sul ritmo musicale… un carosello che ti impedisce di annoiarti perfino se ci provi.

La mappa, con la sua finta libertà di movimento, funziona da buffer respiratorio: cammini, giochi a calcio con Goomba innocenti, fai due passi in un teatrino interattivo e poi entri nel prossimo micro-mondo di follia controllata. È un platform che non ti chiede mai di sposare un’idea per ore e ore; te la presenta, te la fa assaggiare, e la sostituisce con qualcos’altro prima che il tuo entusiasmo cali. Una filosofia quasi da degustazione: piccole porzioni di creatività servite una dietro l’altra, senza appesantire mai.

La cooperativa (ovvero: come rovinare le amicizie con stile)

La cooperativa di Super Mario 3D World è quel tipo di genialata Nintendo che parte come un invito all’armonia familiare e finisce, di solito, come un test di sopravvivenza delle relazioni. Fino a quattro giocatori in contemporanea, ognuno con il proprio peso specifico sul gameplay: il salto più alto di Luigi, la velocità di Toad, la grazia acrobatica di Peach, e Mario… be’, Mario che fa il Mario.

Il livello design, già calibrato al millimetro in solitaria, si trasforma in un caos organizzato quando entra in scena la compagnia: piattaforme che diventano ring, power-up contesi come fosse l’ultimo panettone a dicembre, e quella danza continua tra collaborazione e sabotaggio involontario. È una cooperativa pensata non solo per “aggiungere gente a schermo”, ma per riscrivere il tono della partita: ogni livello cambia ritmo, difficoltà e persino comicità a seconda di quante mani — e quante intenzioni — sono coinvolte.

Il miracolo è che funziona: anziché rompersi sotto il peso dell’anarchia, il gioco la abbraccia e la trasforma in parte del divertimento. E se capita di buttare giù un amico da una piattaforma stretta… è sempre stato colpa della fisica, ovviamente.

Lo studio tedesco: quando Mario smette di essere solo un gioco

Qualche anno fa, un team di ricercatori tedeschi ha fatto ciò che molti giocatori sospettavano da tempo: ha messo Mario in un laboratorio. Non per misurargli il consumo di funghi, ma per capire se un platform ben progettato potesse avere un impatto reale sull’umore.

Il risultato? Un gruppo di partecipanti con sintomi depressivi, dopo alcune sessioni di Super Mario Odyssey, mostrava miglioramenti comparabili a quelli ottenuti con trattamenti più tradizionali, soprattutto in termini di motivazione e benessere percepito. Gli studiosi parlarono di “stimolazione cognitiva positiva” e “senso di progressione chiaro e gratificante”.

Tradotto dal linguaggio accademico: il cervello, quando gli dai qualcosa di brillante, strutturato e gentile con la dopamina, risponde. E mentre il mondo scientifico si interrogava su come un idraulico baffuto potesse avere effetti terapeutici misurabili, molti giocatori alzarono le spalle: “Benvenuti, scienziati. Noi lo diciamo dall’86.”

Lo studio:

  • Titolo: “Effects of a video game intervention on symptoms, training motivation, and visuo-spatial memory in depression”
  • Autori: Moritz Bergmann, Ines Wollbrandt, Lisa Gittel, Eva Halbe, Sarah Mackert, Alexandra Philipsen, Silke Lux
  • Pubblicazione: 2023
  • Contesto: 46 persone con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) divise in tre gruppi: chi giocava a Super Mario Odyssey su Switch, chi faceva training cognitivo con “CogPack”, e chi seguiva trattamento standard (psicoterapia e/o farmaci)

Risultati principali:

  • Dopo 6 settimane, il gruppo Mario mostrava la diminuzione più significativa di sintomi depressivi clinicamente rilevanti
  • Motivazione maggiore a continuare il “trattamento” ludico rispetto al gruppo CogPack
  • Miglioramenti nei test su memoria visuo-spaziale e funzioni cognitive

Conclusioni dei ricercatori: Un intervento con videogiochi 3D potrebbe aumentare il benessere soggettivo, incrementare la motivazione al training e potenzialmente migliorare alcune funzioni cognitive in soggetti con depressione maggiore — con le dovute cautele sulla dimensione del campione e la necessità di ulteriori ricerche.

Messico, burnout e un idraulico baffuto

A un certo punto ho deciso che questo articolo avrebbe fatto una cosa un po’ fuori dal coro: togliersi il cappello da critico videoludico e infilarsi, per una volta, dentro il personale.

Molti anni fa ho attraversato una fase della vita che definire “pesante” è un eufemismo degno di un comunicato stampa. Un mix di stress lavorativo, responsabilità che si moltiplicavano come Goomba e un paio di casini personali che avrei volentieri parcheggiato in un warp zone lontanissima ha finito per schiacciarmi fino al punto di rottura. Il risultato è stato un burnout vero, profondo, di quelli che ti svuotano e ti spezzano il ritmo interiore.

Il punto è che burnout e depressione, pur non essendo la stessa cosa, sembrano parenti stretti che si scambiano il cappotto all’ingresso. Il burnout nasce in genere da un logoramento prolungato — lavorativo, emotivo, relazionale — che ti consuma poco alla volta, come una batteria che resta sempre in modalità “risparmio energetico” senza mai ricaricarsi davvero. La depressione è una condizione clinica più ampia e complessa, ma i due mondi si sovrappongono spesso: la stanchezza costante, la difficoltà a provare piacere nelle cose, il sentirsi scollegati da sé stessi, la perdita di motivazione e quel pensiero ricorrente che “non ce la farò mai a tornare come prima”.

Il burnout può non arrivare al buio profondo della depressione maggiore, ma ne condivide la modalità: ti annebbia il giudizio, ti toglie il colore dalle giornate, ti fa vivere ogni gesto come un ostacolo in più da superare. E soprattutto — qui sta la trappola — può trasformarsi nella porta d’ingresso della depressione se ignorato o minimizzato.

Ne sono uscito solo cambiando radicalmente stile di vita, prendendo tempo per me, viaggiando e ricucendo le priorità. Ma il burnout, proprio come i boss più ostinati, a volte torna a presentare il conto: non ogni giorno, non sempre allo stesso modo, ma abbastanza da ricordarti che la partita non è mai completamente chiusa.

Puerto Escondido: il paradiso sbagliato

Due anni fa, quel vecchio fantasma ha bussato di nuovo alla porta, e lo ha fatto in un momento che sulla carta avrebbe dovuto essere perfetto.

Ero in Messico, zona Puerto Escondido. Da nomade digitale, abituato a vivere in giro per il mondo, avrei dovuto sentirmi nel mio elemento: amici di vecchia data nei paraggi, clima morbido, onde che sembrano disegnate da uno shader particolarmente romantico.

E invece niente. Il vibe locale, quella miscela di surf, yoga e vita alla giornata, mi scivolava addosso. La zona, ormai super gentrificata, oscillava tra il fasto da cartolina e un’insofferenza sempre più evidente da parte dei local.

A complicare le cose, arrivavo lì in un momento di grande trasformazione personale: avevo appena finito un master, mi muovevo tra progetti importanti, con un senso di scopo che finalmente tornava a pulsare. Ero in modalità “costruire”, non “galleggiare”.

E invece Puerto Escondido pullulava di gente che lavorava una stagione, incassava abbastanza per qualche mese di birrette oceaniche e poi… si vede. Una filosofia perfettamente legittima, quasi invidiabile, ma per me era come osservare un ecosistema che parlava un dialetto emotivo che non conoscevo più.

Io ero lì con la testa piena di obiettivi e visioni di lungo periodo; loro viaggiavano leggeri, con il presente come unico bagaglio a mano. Nessun giudizio: solo un distacco crescente, una sensazione da pesce fuor d’acqua.

Mentre tutti attorno sembravano entrare e uscire dalle feste come NPC perfettamente programmati per il buonumore, io mi sentivo fuori posto. Loro si divertivano con una naturalezza da trailer turistico, surf all’alba e tequila al tramonto; io arrancavo dietro a un’energia che non era la mia.

E poi c’era l’età: avevo appena compiuto 46 anni, quel punto in cui ti aspetti di aver risolto almeno il tutorial della vita, e invece sei ancora lì a premere tasti a caso. In mezzo a ventenni e trentenni fluttuanti tra beach party e volontariato spirituale, ero la figura fuori posto: troppo adulto per fingere leggerezza, troppo stanco per improvvisarla, troppo lucido per ignorare la frattura che si stava aprendo sotto i piedi.

Ed è in quella discrepanza — tra la festa intorno e il silenzio dentro — che il down ha iniziato a premere con tutta la sua forza.

Ritrovare sé stessi, un livello alla volta

Ed è stato proprio lì, in quel miscuglio di solitudine paradossale e rumore di festa, che ho trovato un appiglio inatteso: Super Mario 3D World.

Una sera, dopo l’ennesima giornata passata a sentirmi fuori fase con il mondo, ho acceso la Switch quasi per riflesso. E nel momento in cui il jingle di apertura ha riempito la camera, tutto ha fatto click.

La bellezza di quel gioco, in quella situazione, era la sua capacità di darmi ciò che fuori mancava: una struttura chiara, un obiettivo alla volta, un ritmo comprensibile. Là fuori mi sentivo un quarantenne spaesato, lì dentro ero di nuovo un giocatore con una direzione, un percorso, un micro-scopo chiaro che, in quel momento, valeva più di mille feste perfette.

Super Mario 3D World non mi chiedeva di essere leggero: mi aiutava a ritrovarla, un grammo alla volta.

Una delle cose più sorprendenti di Super Mario 3D World, in quel periodo, è stata la facilità con cui riusciva a riportarmi a uno stato mentale che non provavo da anni: la sensazione di tornare bambino. Non in senso ingenuo o nostalgico da poster motivazionale, ma in quel modo autentico in cui il cervello si concede finalmente di abbassare le difese.

Ogni volta che entravo in un livello, era come infilarmi sotto una coperta che conoscevo benissimo: le musiche leggere, i suoni familiari, quelle animazioni morbide che sembrano uscire da un’epoca della vita in cui tutto era più semplice. Non c’era bisogno di spiegare nulla, non c’era da “performare”: c’era solo da giocare.

Ed è incredibile quanto sollievo possa dare essere cullati da qualcosa che parla la lingua della tua infanzia, quando fuori tutto sembra urlare in un idioma che non capisci più. In Messico, mentre il mondo reale mi chiedeva di sintonizzarmi su frequenze emotive sbagliate per me, Mario mi riportava su una banda che conoscevo perfettamente: quella della meraviglia, del ritmo, del piccolo progresso che scalda il cuore.

Per un’ora al giorno, forse meno, non ero il quarantenne smarrito che cercava il proprio posto tra surfisti e nottambuli: ero il bambino che si stupiva di nuovo di fronte a un livello fatto bene. Ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno.

Perché funziona

La verità è che Super Mario 3D World funziona benissimo come gioco-comfort perché parla la lingua che in quei momenti la mente capisce ancora: regolarità, chiarezza, piccole vittorie.

Il suo design “a vignette” è una benedizione per chi ha la testa impastata: ogni livello è breve, nitido, perfettamente contenuto. Non ti chiede immersioni infinite, non pretende concentrazione maratonetica; ti offre invece micro-percorsi che si chiudono in cinque minuti, ciascuno con un obiettivo limpido e una struttura che restituisce immediatamente un senso di competenza.

È l’opposto dei mondi sconfinati che ti lasciano scegliere “cosa fare” quando tu non sai nemmeno “come stare”: 3D World ti prende per mano, ti propone un puzzle elegante, ti dà un feedback chiaro e ti rimette in pista.

In più, la sua estetica zuccherina — colori pastello, musiche leggere, animazioni buffe — non è solo un vezzo artistico: è un balsamo emotivo. È difficile sentirsi completamente sbagliati quando un Mario-gatto si arrampica su un muro come se stesse facendo ginnastica per bambini.

E poi c’è il ritmo, quel flusso continuo di idee che si alternano senza strafare: abbastanza vario da stimolarti, abbastanza contenuto da non sopraffarti. In un periodo in cui la realtà fuori sembrava un livello progettato male, 3D World era il livello progettato benissimo che mi ricordava che, da qualche parte, le cose potevano ancora avere un senso.

La difficoltà giusta

Ricordavo Super Mario 3D World come un titolo quasi troppo permissivo. La prima volta, ai tempi del Wii U, lo avevo archiviato nella categoria dei “platform gentili”: brillante, sì, ma con una difficoltà che raramente ti mordeva le caviglie.

Ma in Messico quella percezione si è ribaltata del tutto. Quella “facilità” che un tempo mi sembrava un difetto lì è diventata una virtù chirurgica: il livello esatto di permissività che serve quando la tua mente non è in forma e ha bisogno di un’esperienza che non la faccia sentire in fallimento ogni tre minuti.

3D World non ti punisce con cattiveria, non ti schiaccia, non ti espone alla frustrazione: ti incoraggia, ti accarezza l’ego quel tanto che basta a tenerti in movimento. È un gioco che concede spazio all’errore senza trasformarlo in giudizio, che ti permette di sperimentare senza il timore di perdere tutto.

In quel contesto emotivo, la sua difficoltà morbida non era “banale”: era calibrata, precisa, quasi terapeutica. Non avevo bisogno di un platform che mettesse alla prova la mia abilità; avevo bisogno di un platform che mettesse in pausa la mia ansia. E 3D World ci riusciva con la naturalezza con cui altri giochi, ben più ambiziosi, provano a fallire da anni.

Un Mario diverso, stessa medicina

Lo studio tedesco parlava di Super Mario Odyssey, certo: un’avventura gigantesca, scintillante, costruita proprio per stupire e tenerti agganciato livello dopo livello. Ma per me, invece, il gioco che ha fatto scattare qualcosa è stato Super Mario 3D World.

Non ha la grandeur esplorativa di Odyssey, non ha i regni sconfinati né le acrobazie del cappello posseduto: ha qualcosa di più discreto, più umile, più… calibrato. E forse è proprio questo il punto. Mentre i ricercatori misuravano la luce nei volti di chi attraversava New Donk City, io la ritrovavo negli angoli squadrati e gentili dei livelli di 3D World, in quel ritmo perfetto che ti tiene per mano senza tirare né spingere.

È paradossale: lo studio parlava di un altro Mario, ma la sua conclusione — quella scintilla di benessere, di motivazione ritrovata — io l’ho vissuta su un palco diverso, con un protagonista ugualmente baffuto ma con un mood tutto suo.

Ed è anche grazie a questo intreccio imprevisto tra scienza e vita che Super Mario 3D World è diventato per me uno dei migliori giochi di sempre: non solo per come è progettato, ma per come mi ha tenuto insieme quando ne avevo più bisogno.

Alla fine, questa storia non parla davvero di me in Messico né di quanto fosse stonata la colonna sonora emotiva in mezzo a un mare di surfisti felici. Non parla nemmeno solo di Mario, per quanto il buon idraulico baffuto abbia fatto più per il mio equilibrio mentale di molti manuali di auto aiuto.

Parla di un’idea semplice, che continuiamo a sottovalutare: i videogiochi, quando sono fatti con cura e intelligenza, possono diventare luoghi. Rifugi. Stanze sicure in cui respirare quando fuori l’aria si fa troppo pesante.

Lo studio tedesco ha provato a dimostrarlo con dati e tabelle; io l’ho scoperto nel modo più disordinato e umano possibile, ritrovandomi in una stanza a Puerto Escondido con la testa piena di pensieri e un Mario-gatto che mi restituiva un pezzo di serenità alla volta.

E forse è proprio questo il potere dei videogiochi: non quello di salvarci — per quello servono cambiamenti reali, tempo, cura — ma quello di accompagnarci mentre proviamo a salvarci da soli. Di ricordarci che siamo ancora capaci di stupirci, di imparare, di ripartire da zero senza vergogna. Di offrirci un livello ben progettato anche quando la nostra vita sembra tutto fuorché tale.

Per questo Super Mario 3D World, ormai, non è solo uno dei miei giochi preferiti: è un promemoria gentile che porto con me. Che nei momenti in cui tutto sembra troppo, a volte basta solo premere “Start”.

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