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Essenza Ludica #3: Tomonobu Itagaki, l’ultimo vero Ninja

Su Essenza Ludica spazio oggi alla carriera di Tomonobu Itagaki, recentemente scomparso, creatore di Dead Or Alive e Ninja Gaiden

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Addio a Tomonobu Itagaki, l’ultimo ribelle del game design: un samurai digitale in un mondo di cloni senz’anima

Bentornati su Essenza Ludica! Oggi non parliamo solo di videogiochi, ma di identità. Di uno di quegli autori che avevano un volto, una voce e, soprattutto, un’idea precisa di cosa dovesse essere un videogioco: Tomonobu Itagaki.

Con la sua recente scomparsa, se ne va uno degli ultimi veri samurai del game design — un autore che non si nascondeva dietro ai loghi, che metteva il proprio nome davanti ai titoli come una firma di guerra. In un’industria sempre più levigata, dove i tripla A sembrano uscire tutti dallo stesso laboratorio di clonazione, Itagaki era l’anomalia, l’eccezione, il colpo di katana che rompe la monotonia.

Il suo percorso, dalle origini in Tecmo fino alla fondazione di Team Ninja, è la parabola di un creatore che non ha mai smesso di osare, anche quando osare significava andare contro tutto e tutti. Ninja Gaiden, Dead or Alive, Devil’s Third — ognuno, a modo suo, un manifesto di una visione senza compromessi, ruvida, personale. Oggi celebriamo Itagaki non solo per i giochi che ha creato, ma per l’idea stessa di autore che rappresentava: quella che nel mondo dei poligoni e dei budget miliardari sembra ormai appartenere a un’epoca lontana.

Dai touchdown alle katane — quando Itagaki allenava i riflessi sui campi di Tecmo

Prima dei ninja, prima delle kunai e delle combo impossibili, Tomonobu Itagaki ha iniziato la sua corsa tra campi da gioco digitali e spalti virtuali. Niente katane, ma palloni e mazze da baseball: il suo debutto in Tecmo passò infatti dai titoli sportivi come Tecmo super Bowl e Tecmo Super Baseball.

Erano gli anni in cui il Giappone cercava di reinterpretare il linguaggio arcade in chiave più “americana”, e Itagaki — giovane programmatore con più ambizione che esperienza — cominciava a farsi le ossa proprio lì, lavorando sull’equilibrio, sul ritmo, sul “feeling” del controllo.

È curioso pensare che uno dei maestri del combattimento videoludico abbia imparato il mestiere facendo segnare touchdown. Ma proprio in quei pixel da domenica pomeriggio c’era già la sua ossessione: il movimento come linguaggio, la risposta immediata tra giocatore e schermo. Prima ancora di tagliare nemici a metà, Itagaki stava imparando a far sentire ogni gesto — anche un semplice passaggio — come qualcosa di fisico, reale, giusto.

Non era affatto male, Tecmo Super Bowl. Non il mio genere, per niente — troppo casco e troppo fischietto per i miei gusti — ma bisogna riconoscergli che all’epoca fece un gran rumore. Una delle prime simulazioni sportive a gestire statistiche reali, stagioni complete e una fluidità che molti concorrenti potevano solo sognarsi. Itagaki stava ancora imparando, ma già si intuiva quel gusto per il dettaglio e per la risposta immediata ai comandi che diventerà la sua firma.

Ma lasciamo da parte i touchdown e torniamo alle katane: è ora di parlare di ciò per cui siamo davvero qui. Dei giochi che hanno consacrato Tomonobu Itagaki come uno degli ultimi veri maestri del game design d’autore — quelli in cui l’azione non si gioca, si vive.

Dead or Alive — L’arte marziale del fanservice (e dell’inganno)

Diciamolo subito: quando si nomina Dead or Alive, la mente di molti corre istintivamente a tette ballonzolanti e chiappe marmoree. È quasi un riflesso pavloviano, un’immagine scolpita nella cultura pop da anni di trailer discutibili e versioni “beach volley” che hanno fatto più parlare di fisica che di combattimento. Ma fermarsi lì è un errore madornale — anzi, un’ingiustizia.

Sotto la superficie lucida di costumi improbabili e slow motion strategici, DOA nasconde una delle esperienze di picchiaduro più tecniche e feroci mai concepite. Itagaki usava il fanservice come specchietto per le allodole, una distrazione per i profani. In realtà, stava costruendo un sistema di combattimento basato su tempismo, reazione e lettura dell’avversario, un balletto letale in cui un solo errore poteva costarti il match. Altro che “gioco per guardoni”: Dead or Alive era una lezione di design puro, elegante e spietato.

Il cuore pulsante di Dead or Alive è una morra cinese da arti marziali, un triangolo perfetto dove ogni scelta ha il suo predatore naturale. Attacco batte presa, presa batte parata, parata batte attacco — semplice a dirsi, infernale da padroneggiare. Questo sistema, chiamato Triangle System, è la chiave di volta dell’intera serie: una danza di riflessi e anticipazione in cui leggere l’avversario vale più di qualunque combo spettacolare.

Itagaki non voleva solo che tu picchiassi: voleva che pensassi mentre picchiavi. Ogni colpo, ogni schivata, ogni contrattacco è un rischio calcolato. Il bello — o il terribile, a seconda del tuo autocontrollo — è che tutto avviene a velocità fulminante. In DOA, un errore di mezzo secondo non è un “quasi”, è una condanna. E quando sbagli, sai benissimo che non è colpa del gioco: è colpa tua.

In un’epoca in cui molti picchiaduro si rifugiano in combo preconfezionate e spettacolo da sala giochi, Itagaki costruì un sistema puro, essenziale, mentale. Dietro l’effetto patinato, Dead or Alive era una partita a scacchi giocata con i pugni — e il più intelligente, non il più aggressivo, porta a casa la vittoria.

Poi arrivò Dead or Alive Ultimate, e lì le cose cambiarono davvero. Tecnicamente un remake del secondo capitolo, in realtà fu la consacrazione definitiva della serie. Itagaki limò ciò che c’era da limare, sistemò ciò che andava sistemato, e soprattutto alzò l’asticella in termini di precisione e profondità. Le parate — fino ad allora un po’ troppo “gratuite” — vennero rese più tecniche, più rischiose: bisognava parare al momento giusto, ma anche in modo diverso a seconda che arrivasse un pugno o un calcio. Un dettaglio che separava i giocatori bravi dagli ossessionati, e che trasformava la difesa in un’arte a sé, degna di un dojo digitale.

Ma la vera magia di Ultimate fu l’online. Per la prima volta su console — la prima Xbox, roba da pionieri digitali — ci si poteva sfidare a colpi di combo attraverso la rete. Un’idea oggi banalissima, ma allora era pura fantascienza: niente lobby patinate o matchmaking automatici, solo tu, il tuo personaggio e un avversario invisibile dall’altra parte del mondo, pronto a farti vedere chi era il vero ninja.

Io lo ricordo bene: non feci altro per mesi. Fidanzata ignorata, amici spariti, lavoro trascurato. C’ero solo io, l’Xbox, e un’ossessione chiamata Dead or Alive Ultimate. Ogni vittoria era un’epifania, ogni sconfitta una lezione di umiltà. Itagaki non aveva solo creato un picchiaduro: aveva costruito un dojo globale, un luogo dove imparare il rispetto — o la rabbia — un frame alla volta.

Con Dead or Alive 4, la storia si ripeté — ma in quel modo che ti fa sorridere, non sbadigliare. Un more of the same? Certo. Ma un more of the same decisamente gustoso, lucidato per la nuova generazione e potenziato da un comparto online che, su Xbox 360, era ormai maturo e micidiale. Io, personalmente, ci ho passato centinaia di ore. E lo dico senza vergogna: ero piuttosto bravo.

La mia Tina Armstrong scalava le classifiche mondiali con una grazia da wrestler e la potenza di un TIR lanciato in discesa. Mi fermavano solo i veri pro, quelli che vedevano i frame in slow motion. La mia tecnica? Semplice, ma efficace: fingere prevedibilità. Mostrarmi leggibile, quasi banale, per spingere l’avversario a tentare una counter. A quel punto — zac! — command grab devastante, con danno extra per aver osato counterare la mia finta. Un dolore fisico e morale per il poveretto che, in quel momento, potevo quasi vedere: occhi sgranati, pollici fermi, il silenzio gelido di chi ha appena perso la partita che credeva già vinta.

Ecco cos’è Dead or Alive: non combo da scimmia ammaestrata, ma gioco mentale, timing e nervi saldi. È il piacere di entrare nella testa dell’altro, di anticiparlo, di umiliarlo con eleganza. Itagaki lo sapeva benissimo — e DOA4 fu il suo ultimo grande sorriso sornione al mondo dei picchiaduro.

Ninja Gaiden — Il dolore come forma d’arte

Con Ninja Gaiden, Tomonobu Itagaki smise di flirtare con il giocatore. Niente più parate morbide, niente più grazia: qui ogni errore era una ferita vera. Quando il gioco uscì nel 2004 su Xbox, sembrò arrivare da un’altra epoca — una in cui la difficoltà non era un filtro di selezione per streamer sadici, ma un linguaggio estetico. Ninja Gaiden non voleva piacerti: voleva domarti.

Il sistema di combattimento era un’evoluzione diretta del pensiero di Dead or Alive: stesso culto per il tempismo, ma portato all’estremo, con un ritmo quasi coreografico. Ogni nemico era un test di concentrazione, ogni scontro una danza letale dove l’unico margine d’errore era la tua presunzione. Itagaki costruiva boss fight che ti insegnavano a cadere, a fallire, a rialzarti con un dito in più sulla levetta analogica e una bestemmia in meno.

E poi c’era la violenza. Non quella gratuita, ma la violenza come linguaggio, come dichiarazione di poetica. Tagliare un avversario in due non era solo spettacolo, era catarsi: la liberazione del giocatore che finalmente padroneggia il sistema, che smette di sopravvivere e inizia a danzare. Ninja Gaiden non era un gioco d’azione: era un rituale di precisione, un allenamento spirituale travestito da massacro.

Ninja Gaiden era, nella sua forma più pura, un action senza compromessi. Niente open world, niente dialoghi infiniti o bivi morali: si partiva dal punto A e si arrivava al punto B massacrando tutto ciò che respirava nel mezzo. Ma non era un macello cieco — era arte marziale in movimento. Ogni colpo andava guadagnato, ogni parata studiata, ogni uccisione meritata. Nessuna combo gratuita, nessun “premi X per vincere”: solo tu, la spada, e il ritmo perfetto di un gameplay tecnico, pulito, chirurgico.

In un’epoca in cui il videogioco mainstream cominciava quel declino di comodità da cui non si è ancora ripreso — checkpoint ogni cinque passi, tutorial invadenti, salvataggi automatici come ruote di scorta per chi ha paura di sbagliare — Ninja Gaiden ti lanciava invece nel fuoco e ti diceva: “diventa bravo o muori.” Nessun aiuto, nessuna pietà, ma la soddisfazione vera, quella che oggi si è quasi dimenticata: migliorare, crescere, superare il gioco con le proprie mani.

Itagaki aveva distillato l’essenza perduta del videogioco: l’idea che giocare non sia essere accompagnati, ma essere messi alla prova. E quando finalmente battevi quel boss che ti aveva umiliato per ore, non avevi solo finito un livello — avevi vinto contro te stesso.

L’ho divorato all’uscita, e resta saldamente ancorato nella mia top 5 dei migliori action di sempre.

Con Ninja Gaiden II, Itagaki decise di alzare ancora la posta. Se il primo era una prova di pazienza e precisione, il secondo era una sinfonia di caos controllato. Tutto diventò più rapido, più sanguinario, più estremo — un balletto di arti mozzate, urla e shuriken che sembrava uscito da un incubo diretto da Kurosawa dopo una notte insonne. Ryu Hayabusa non era più un ninja: era una divinità della distruzione, e il giocatore il suo sacerdote.

Il ritmo era serrato, quasi disumano. Gli avversari ti circondavano, ti costringevano a muoverti senza sosta, e il sistema di combattimento — già perfetto nel primo — diventava qui una danza di riflessi e memoria muscolare. Ogni arma aveva un suo peso, un suo flusso, un suo modo di fendere l’aria. E quando trovavi la sincronia, quando la lama e il pensiero diventavano uno, Ninja Gaiden II ti regalava quel brivido che solo pochi giochi sanno dare: la sensazione di padroneggiare il caos.

Mentre l’industria spingeva verso la spettacolarità passiva e il giocatore-assistito, Itagaki raddoppiava la posta. Nessuna semplificazione, nessuna concessione. Solo pura abilità, precisione, rabbia e bellezza fuse in un’unica esperienza. Il sangue non era lì per scandalizzare, ma per ricordarti che ogni colpo aveva peso, ogni vittoria un costo.

Forse leggermente al di sotto del primo, Ninja Gaiden II è comunque un action stupendo, come ormai si vedono raramente. Di recente è uscito un remake, una scusa per provarlo, se siete stufi di essere trattati come lattanti incapaci di impugnare un pad.

L’ultimo taglio — l’addio di un ninja

Dopo Ninja Gaiden II, calò la nebbia. Tomonobu Itagaki lasciò Tecmo in circostanze tutt’altro che pacifiche — accuse, cause legali, voci di tradimenti e rancori covati nei corridoi. Un’uscita di scena quasi teatrale, degna del suo personaggio: un samurai che getta la spada a terra e abbandona il clan, non perché sconfitto, ma perché non disposto a piegarsi. Da quel momento, il Team Ninja continuò a esistere… ma senza il suo ninja più pericoloso, sembrò perdere l’anima.

Itagaki fondò poi Valhalla Game Studios e tentò di tornare con Devil’s Third, un progetto ambizioso, irrequieto, sfortunato. Non era più il tempo degli autori fuori controllo, e il mondo del gaming — ormai blindato nei suoi franchise miliardari — non sapeva più come accogliere uno come lui. Ma anche in quella caduta, c’era coerenza: non ha mai smesso di essere Itagaki, nel bene e nel male. Orgoglioso, provocatore, irriducibile.

Con la sua scomparsa, non perdiamo solo un designer. Perdiamo un’idea di videogioco: quella fatta di carattere, rischio, visione personale. Tomonobu Itagaki non era perfetto — e meno male.

Perché la perfezione è noiosa. Lui, invece, era vivo. Come i suoi giochi: duri, eleganti, folli. Proprio come dev’essere il videogioco, quando smette di voler piacere a tutti e torna a voler colpire.

Oggi che il mondo dei giochi sembra sempre più preoccupato di non farci soffrire, di non farci fallire, Itagaki resta lì — come un’ombra dietro lo schermo — a ricordarci che la sfida è l’anima del gioco. Che la perfezione non si raggiunge semplificando, ma cadendo e rialzandosi.

Addio, Itagaki. Ultimo ninja, samurai del pad. Ci lasci un vuoto, ma anche una lezione che vale più di mille sequel: il videogioco non deve coccolarti, deve temprarti. E finché ci sarà qualcuno disposto a premere “Restart” invece di “Easy Mode”, il tuo spirito continuerà a combattere.

 

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