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Videogiochi

Essenza Ludica # 2: Quando i sequel hanno avuto troppo coraggio

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ESSENZA LUDICA

Il coraggio di cambiare (anche quando non dovresti)

C’è una regola non scritta nel mondo dei sequel: “Se funziona, non toccarlo.” Ma si sa, gli sviluppatori sono un po’ come i cuochi stellati: appena trovano la ricetta perfetta, devono per forza aggiungerci wasabi e nitroglicerina. Così, invece di servire “più dello stesso”, certi geni del male hanno deciso che “lo stesso” era roba da plebei.

Il risultato? Giocatori confusi, riviste furiose e fan che urlavano “l’avete rovinato!” come se gli avessero cancellato i salvataggi.

Ma sotto quella patina di follia e scelte discutibili si nascondevano idee che oggi definiremmo “visionarie”,  o almeno, così ci piace pensare per non ammettere che vent’anni fa non avevamo capito niente.

Sono i sequel eretici, i coraggiosi, i fraintesi: quelli che provarono a reinventarsi quando nessuno gliel’aveva chiesto e che, nel farlo, scrissero pagine di follia creativa che ancora oggi meriterebbero un applauso… o almeno una pacca sulla spalla e un “forse avevi ragione tu”.

Oppure no?

È facile oggi, con l’aria da critico illuminato e la barba accademica, dire che “non avevamo capito Castlevania II: Simon’s Quest”, che era avanti, sperimentava e anticipava la fusione tra azione e RPG. Ma prova a dirlo al te dodicenne che, davanti allo scaffale del negozio, sceglieva quel “cartuccione” pensando “è Castlevania, ma con più mostri!”.

Quando quel gioco doveva essere il tuo gioco per mesi, la tua unica avventura sotto l’albero di Natale o dopo la paghetta, il discorso cambia parecchio: non stavi cercando la sperimentazione, volevi solo ammazzare vampiri a colpi di frusta, non tradurre enigmi esistenziali in inglese medievale.

I pionieri 8-bit: gli eretici in tempi semplici

Erano tempi più semplici, certo: bastavano due tasti, un po’ di fantasia e tanta pazienza. Ma anche tra i pixel innocenti dell’era 8-bit c’erano sviluppatori che decisero di osare troppo. Giochi che oggi vengono celebrati come pionieri del design moderno, capaci di introdurre meccaniche che avremmo ritrovato nei capolavori di decenni dopo… ma che all’epoca erano più odiati di un livello subacqueo con tempo limitato.

E sì, li ho avuti entrambi. Li ho giocati, li ho amati, li ho detestati, in ordine sparso e a giorni alterni. Lì, tra l’entusiasmo infantile e il trauma digitale, ho capito che anche il genio, su NES, poteva farti piangere davanti alla TV.

Castlevania II: Simon’s Quest

Il primo Castlevania (1986) era puro istinto arcade: salti millimetrici, frusta alla mano e una progressione lineare scolpita nella pietra. Nessuna introspezione, nessun enigma: solo tu, Dracula e una lunga serie di scale che sembravano progettate da qualcuno che odiava profondamente l’ergonomia.

Ma alla Konami nel 1987 qualcuno decise che frustare vampiri non bastava più, serviva profondità. Così, via le linee dritte e dentro un mondo “aperto”, con NPC misteriosi, cicli giorno/notte e dialoghi così criptici da farti rimpiangere la chiarezza di un manuale d’istruzioni in giapponese non tradotto. All’epoca sembrava un disastro di game design: nessuno capiva dove andare, cosa fare, o perché il sole decidesse di tramontare proprio mentre stavi saltando su una piattaforma.

E poi c’erano gli enigmi. Ah, gli enigmi. Tipo quello del masso invisibile da attraversare inginocchiandosi per cinque secondi con il cristallo rosso in mano, un gesto che, se non ti era stato rivelato da un paesano delirante o da una guida Nintendo Power, non avresti mai scoperto neanche per sbaglio.

O l’indicazione “Hit Deborah Cliff with your head to make a hole”, che tradotta suonava come una barzelletta malriuscita e nella pratica voleva dire: stai fermo come uno scemo e aspetta che succeda qualcosa.

Ma non basta. Alcuni NPC danno indizi volutamente falsi o trollanti, errori di localizzazione (alcune frasi “neutre” giapponesi sono state tradotte in modo fuorviante), muri che dovevi rompere ma non avevano crepe né indizi visivi, e molto altro.

Per un bambino dell’epoca era praticamente impossibile arrivare a vedere i titoli di coda.

Eppure Simon’s Quest ha gettato le basi di quello che oggi chiamiamo Metroidvania: esplorazione libera, progressione per potenziamenti, e la sensazione di un mondo interconnesso che ricompensa la curiosità. Certo, a suo tempo l’unica cosa che ricompensava era la tua frustrazione. L’unico gioco dove chiedere aiuto a un paesano era più rischioso che combattere Dracula.

Zelda II: The Adventure of Link

Nintendo, 1987. Dopo il trionfo del primo Legend of Zelda, un gioco che aveva reinventato l’avventura, Shigeru Miyamoto e soci decisero di… buttar via la mappa. Letteralmente.

Zelda II spiazzò tutti con un gameplay a scorrimento laterale, combattimenti in tempo reale e un sistema di livelli degno di un proto-RPG.

Un sequel che voleva essere più esperimento che continuazione, ma che finì per sembrare il fratello ribelle che si è tatuato “differente” sulla fronte.

La vera follia di Zelda II stava nella sua struttura ibrida, un patchwork di idee che oggi definiremmo “ambiziose”, ma che all’epoca suonavano più come “ma che diamine sta succedendo?”. L’esplorazione del mondo avveniva dall’alto, in una mappa che ricordava il primo Zelda ma semplificata, quasi astratta, una specie di RPG da tavolo in miniatura, dove ti muovevi come un segnaposto in cerca di guai.

Appena entravi in contatto con un nemico o in un’area d’interesse, però, il gioco cambiava prospettiva e diventava un platform d’azione in 2D, con salti millimetrici, duelli a colpi di scudo e un Link che sembrava uscito da un torneo di scherma medievale.

Un sistema schizofrenico ma affascinante, che cercava di fondere l’avventura strategica con l’adrenalina dell’azione. Oggi potremmo chiamarlo dual gameplay system, ma nel 1987 era più che altro un modo elegante per dire: “preparati a morire in due dimensioni diverse”.

All’epoca, molti giocatori lo presero come un tradimento personale: dove erano finiti i dungeon aperti, la libertà d’esplorazione, la mappa che ti faceva sentire un eroe in miniatura?

Ora c’erano schermate bidimensionali, nemici spietati e un sistema di magie che divorava punti esperienza come se fosse una dieta a base di lacrime. Ogni scontro era una lezione di umiltà, anche contro i melmosi Bot che ti facevano a pezzi con la gioia sadica di chi sa che non hai ancora imparato a parare.

Eppure, nel suo caos, Zelda II aveva una visione: unire l’azione diretta al progresso del personaggio, sperimentare con il concetto di crescita e rischio. Era un laboratorio di idee, nascosto dietro un’apparenza di frustrazione pura. Oggi possiamo guardarlo con rispetto, quasi come un antesignano dei soulslike.

Tra le sue follie, Zelda II introdusse villaggi popolati da NPC, magie da apprendere, e un sistema di esperienza che faceva crescere Link come in un vero RPG. Per la prima volta non eri solo un eroe con la spada, ma un personaggio che evolveva, parlava, decideva. In sostanza, un prototipo precoce di ciò che oggi chiamiamo action RPG, solo con più dolore e meno tutorial.

Ma per chi lo giocò allora, convinto di ritrovare l’avventura tranquilla del primo Zelda, fu un colpo basso: il classico caso in cui compri un sequel e ti ritrovi in un esame di sopravvivenza.

Super Mario Bros. 2 (USA)

Niente Bowser, niente Koopa, niente tubi che portano all’inferno logistico di un idraulico: solo sogni e verdure da lanciare in faccia ai nemici. Super Mario Bros 2 è l’equivalente videoludico di un sogno dopo una cena pesante; un gioco bizzarro, coloratissimo, dove la logica prende ferie e la fisica si mette a ridere.

La verità? In realtà non era nemmeno un vero Mario: Nintendo, temendo che il Super Mario Bros. 2 giapponese fosse troppo punitivo per il pubblico occidentale, prese un titolo completamente diverso, Doki Doki Panic, e gli appiccicò sopra i volti di Mario, Luigi, Peach e Toad. Un colpo di genio (o di follia commerciale) che trasformò un progetto dimenticabile in un classico da manuale.

Eppure, dietro quella maschera improvvisata, si nascondeva una rivoluzione: quattro personaggi giocabili con abilità diverse, un design verticale che spingeva all’esplorazione e un tono surreale che oggi consideriamo un marchio di stile. All’epoca confuse mezzo mondo, ma nel tempo ha insegnato a Nintendo che anche i sogni strani possono vendere milioni di copie.

A differenza di Simon’s Quest o Zelda II, Super Mario Bros. 2 noi lo abbiamo amato da subito. Forse perché era strano, sì, ma era uno strano allegro, colorato, giocoso. Nessuno si è lamentato della mancanza di Bowser o dei Goomba: eravamo troppo occupati a lanciare rape, a scoprire scorciatoie nascoste e a litigare su chi potesse usare la Principessa — l’unica con un salto decente. Era diverso, certo, ma lo abbiamo consumato: pomeriggi interi passati a esplorare ogni livello come se stessimo decifrando un sogno collettivo a 8-bit. Un sequel fuori rotta che, paradossalmente, riuscì a farci sentire perfettamente a casa.

Poligoni e rivoluzioni: quando i sequel persero il senno (in 3D)

Con l’arrivo del 3D, il videogioco smise di essere un giocattolo e iniziò a prendersi tremendamente sul serio, spesso con risultati meravigliosi, altre volte disastrosi. Gli sviluppatori avevano finalmente potenza, spazio e ambizione… e li usarono per sperimentare tutto ciò che gli passava per la testa. Il risultato? Sequel che abbandonavano le regole, ridefinivano generi e, a volte, dimenticavano persino di essere divertenti. Ma almeno nessuno poteva accusarli di giocare sul sicuro.

Dino Crisis 2

Capcom, Anno 2000. Dopo il primo Dino Crisis, che era fondamentalmente Resident Evil con più zanne e meno zombie, nessuno si aspettava un cambio di rotta così drastico.

E invece Dino Crisis 2 mandò all’aria la tensione del survival horror e la sostituì con esplosioni, mitragliatrici e punteggi a schermo: un Jurassic Park diretto da Michael Bay. I fan dell’horror psicologico rimasero perplessi, volevano paura, si ritrovarono combo.

Il cuore del gioco era il suo ritmo forsennato: ogni dinosauro abbattuto in rapida successione aumentava il punteggio, premiando la precisione e la velocità con bonus da sala giochi. Non contava solo sopravvivere, ma farlo con stile, concatenare uccisioni senza farsi toccare, come in un balletto di proiettili e ruggiti. Più combo facevi, più punti guadagnavi, e con quei punti compravi armi, munizioni e potenziamenti.

In pratica, Capcom aveva preso il concetto di survival horror e l’aveva trasformato in un action a tempo, dove la paura lasciava spazio all’adrenalina pura.

Ma dietro l’apparente tradimento si nascondeva un’intuizione brillante: il passaggio dall’horror al ritmo arcade, con meccaniche basate sul punteggio, la velocità e lo stile nell’uccidere dinosauri. In pratica, un prototipo inconsapevole di ciò che pochi anni dopo sarebbe diventato Devil May Cry. All’epoca sembrò un delirio fuori strada, oggi appare come uno dei primi esperimenti nel rendere l’azione una performance. Io mi ci divertii come il bambino che, a mio malgrado, non ero più da tempo.

Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty

Il primo Metal Gear Solid (1998) era stato una rivelazione: il momento in cui il videogioco dimostrò di poter raccontare una storia da cinema senza rinunciare al controllo del giocatore.

Snake e Raiden, protagonisti di Metal Gear Solid 2

Hideo Kojima unì regia, doppiaggio e tensione in un’unica esperienza che fece sembrare tutti gli altri giochi dell’epoca improvvisamente vecchi. Snake divenne un’icona, il sigaro d’azione e filosofia, e noi ci sentivamo parte di qualcosa di adulto, moderno, quasi proibito. Dopo un tale capolavoro, era inevitabile che qualunque cambiamento — anche geniale — venisse vissuto come un affronto personale. E fu proprio per questo che, qualche anno dopo, Kojima decise di fare l’unica cosa impensabile: toglierci tutto ciò che ci faceva sentire al sicuro. 2001, Metal gear Solid 2. Qui il gameplay non cambiò molto: infiltrazione, gadget, guardie con un campo visivo da talpa e quella miscela perfetta di tensione e precisione che Kojima aveva già consacrato nel primo Metal Gear Solid. La vera rivoluzione arrivò altrove, nella narrativa, e nel colpo di mano più audace (e divisivo) della storia dei sequel: togliere al giocatore Solid Snake.

Dopo un’ora di gioco, il protagonista iconico sparisce, e ci ritroviamo a controllare Raiden, un novellino biondo e loquace che sembrava uscito da una boy band cyberpunk.

Una mossa che mandò in crisi mezzo fandom, ma che aveva uno scopo preciso: ribaltare le aspettative, farci vivere la leggenda di Snake da fuori, come un mito che ci sovrasta. Era una mossa meta-narrativa ante litteram, un gioco che parlava direttamente al giocatore e, nel finale, letteralmente con lui, su identità, controllo e informazione. Metal Gear Solid 2 non chiedeva solo di completare una missione: chiedeva di mettere in discussione chi la stava giocando. All’epoca sembrò un tradimento, oggi è considerato uno dei momenti più audaci e lucidi del medium.

Anche se, ammettiamolo, quando apparve Raiden con i suoi capelli da shampoo pubblicitario, tutti abbiamo avuto la stessa reazione: “Kojima, ma che ti sei fumato?”.

Troppo strani per piacere, troppo geniali per sparire

Riguardandoli oggi, tutti questi sequel sembrano figli di un’epoca in cui sbagliare era ancora possibile. Esperimenti che, al momento dell’uscita, ci fecero alzare le sopracciglia (o lanciare un pad), ma che col senno di poi hanno lasciato un segno più profondo di tanti seguiti “perfettamente inutili”.

Erano giochi che osavano cambiare, anche a costo di farsi odiare. Che toglievano al giocatore ciò che voleva, per offrirgli qualcosa che ancora non sapeva di desiderare. In un’industria che oggi vive di remake, reboot e comfort zone digitali, il loro coraggio suona quasi rivoluzionario.

Forse avevano torto nei tempi, forse avevamo torto noi nel giudicarli.

Ma resta una verità universale: i videogiochi più memorabili non sono quelli che ci hanno dato di più dello stesso, ma quelli che ci hanno fatto dire “ma che c..?” — e poi, vent’anni dopo, ci hanno fatto capire che sì, avevano solo viaggiato nel tempo troppo in fretta.

Ma ora scusatemi: devo chiedere perdono a Raiden, ad un paio di dinosauri e alla mia copia di Simon’s Quest che, onestamente, non se lo meritava.

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Approfondimenti e Curiosità

Essenza Ludica: Quando un platform ti tiene a galla: il lato terapeutico di Mario 3D World

Su Essenza Ludica si parla di Super Mario 3D World e benessere mentale: una storia vera su come un videogioco può offrire conforto.

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Super Mario 3D World è uno di quei titoli che sembravano destinati a rimanere intrappolati nel purgatorio dorato del Wii U: amato da chi l’aveva giocato, ignorato dal resto del mondo perché — diciamolo — la console Nintendo meno capita dell’ultimo ventennio non era esattamente il posto ideale per un capolavoro.

Quando uscì nel 2013, il panorama videoludico stava cambiando pelle: PS4 e Xbox One inauguravano l’era dell'”open world a tutti i costi”, i tripla A lucidavano muscoli e shader, e il povero Wii U arrancava come un Toad senza power-up. In questo clima da transizione un po’ schizofrenica, Nintendo tirò fuori un platform isometrico lucidissimo, erede di 3D Land, che preferiva l’invenzione geometrica al gigantismo a mappa aperta. Un gioco che ti metteva davanti livelli cesellati con precisione ossessiva, una cooperativa irresistibile e quell’estetica da laboratorio Nintendo in stato di grazia.

Sul piano critico fu un trionfo quasi unanime. Sul piano commerciale… fece quello che poteva. Con circa sei milioni di copie vendute, 3D World diventò uno dei titoli più popolari del Wii U, ma il problema era la console stessa: un palco mezzo vuoto, incapace di dare al gioco l’esposizione che meritava. Per un Mario tridimensionale, un potenziale da 15-20 milioni buttato su una base installata di 13 scarsi era una missione impossibile. Non era il gioco ad aver sbagliato qualcosa; era il pubblico potenziale rimasto fuori dalla porta.

Quando Nintendo ha deciso di dargli una seconda vita su Switch, con l’edizione del 2021 accompagnata dall’espansione Bowser’s Fury, il mondo ha finalmente fatto la conoscenza che avrebbe dovuto fare anni prima. Le recensioni internazionali — entusiaste fino all’imbarazzo — parlavano di “trionfo”, “gioiello di precisione”, “laboratorio di creatività in formato platform”. Insomma: non era l’ennesimo Mario, era il Mario che rischiava di non essere visto.

Un design che ti tiene per mano (nel senso buono)

La struttura di Super Mario 3D World è la prova vivente che Nintendo, quando vuole, riesce a trasformare la geometria in intrattenimento puro. Niente open world dispersivi, niente hub contemplativi: qui si torna a un’impostazione a mondi e livelli, old school ma filtrata attraverso la lente tridimensionale estremamente ordinata inaugurata da 3D Land.

Ogni stage è un’idea: compatta, leggibile, autoconclusiva, progettata per durare il tempo giusto prima di sparire e lasciare spazio alla successiva. È un design “a vignette”, dove il ritmo è dato dal continuo susseguirsi di concept: un livello sul vento, uno sulle piattaforme trasparenti, uno sui doppelgänger, uno sul ritmo musicale… un carosello che ti impedisce di annoiarti perfino se ci provi.

La mappa, con la sua finta libertà di movimento, funziona da buffer respiratorio: cammini, giochi a calcio con Goomba innocenti, fai due passi in un teatrino interattivo e poi entri nel prossimo micro-mondo di follia controllata. È un platform che non ti chiede mai di sposare un’idea per ore e ore; te la presenta, te la fa assaggiare, e la sostituisce con qualcos’altro prima che il tuo entusiasmo cali. Una filosofia quasi da degustazione: piccole porzioni di creatività servite una dietro l’altra, senza appesantire mai.

La cooperativa (ovvero: come rovinare le amicizie con stile)

La cooperativa di Super Mario 3D World è quel tipo di genialata Nintendo che parte come un invito all’armonia familiare e finisce, di solito, come un test di sopravvivenza delle relazioni. Fino a quattro giocatori in contemporanea, ognuno con il proprio peso specifico sul gameplay: il salto più alto di Luigi, la velocità di Toad, la grazia acrobatica di Peach, e Mario… be’, Mario che fa il Mario.

Il livello design, già calibrato al millimetro in solitaria, si trasforma in un caos organizzato quando entra in scena la compagnia: piattaforme che diventano ring, power-up contesi come fosse l’ultimo panettone a dicembre, e quella danza continua tra collaborazione e sabotaggio involontario. È una cooperativa pensata non solo per “aggiungere gente a schermo”, ma per riscrivere il tono della partita: ogni livello cambia ritmo, difficoltà e persino comicità a seconda di quante mani — e quante intenzioni — sono coinvolte.

Il miracolo è che funziona: anziché rompersi sotto il peso dell’anarchia, il gioco la abbraccia e la trasforma in parte del divertimento. E se capita di buttare giù un amico da una piattaforma stretta… è sempre stato colpa della fisica, ovviamente.

Lo studio tedesco: quando Mario smette di essere solo un gioco

Qualche anno fa, un team di ricercatori tedeschi ha fatto ciò che molti giocatori sospettavano da tempo: ha messo Mario in un laboratorio. Non per misurargli il consumo di funghi, ma per capire se un platform ben progettato potesse avere un impatto reale sull’umore.

Il risultato? Un gruppo di partecipanti con sintomi depressivi, dopo alcune sessioni di Super Mario Odyssey, mostrava miglioramenti comparabili a quelli ottenuti con trattamenti più tradizionali, soprattutto in termini di motivazione e benessere percepito. Gli studiosi parlarono di “stimolazione cognitiva positiva” e “senso di progressione chiaro e gratificante”.

Tradotto dal linguaggio accademico: il cervello, quando gli dai qualcosa di brillante, strutturato e gentile con la dopamina, risponde. E mentre il mondo scientifico si interrogava su come un idraulico baffuto potesse avere effetti terapeutici misurabili, molti giocatori alzarono le spalle: “Benvenuti, scienziati. Noi lo diciamo dall’86.”

Lo studio:

  • Titolo: “Effects of a video game intervention on symptoms, training motivation, and visuo-spatial memory in depression”
  • Autori: Moritz Bergmann, Ines Wollbrandt, Lisa Gittel, Eva Halbe, Sarah Mackert, Alexandra Philipsen, Silke Lux
  • Pubblicazione: 2023
  • Contesto: 46 persone con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) divise in tre gruppi: chi giocava a Super Mario Odyssey su Switch, chi faceva training cognitivo con “CogPack”, e chi seguiva trattamento standard (psicoterapia e/o farmaci)

Risultati principali:

  • Dopo 6 settimane, il gruppo Mario mostrava la diminuzione più significativa di sintomi depressivi clinicamente rilevanti
  • Motivazione maggiore a continuare il “trattamento” ludico rispetto al gruppo CogPack
  • Miglioramenti nei test su memoria visuo-spaziale e funzioni cognitive

Conclusioni dei ricercatori: Un intervento con videogiochi 3D potrebbe aumentare il benessere soggettivo, incrementare la motivazione al training e potenzialmente migliorare alcune funzioni cognitive in soggetti con depressione maggiore — con le dovute cautele sulla dimensione del campione e la necessità di ulteriori ricerche.

Messico, burnout e un idraulico baffuto

A un certo punto ho deciso che questo articolo avrebbe fatto una cosa un po’ fuori dal coro: togliersi il cappello da critico videoludico e infilarsi, per una volta, dentro il personale.

Molti anni fa ho attraversato una fase della vita che definire “pesante” è un eufemismo degno di un comunicato stampa. Un mix di stress lavorativo, responsabilità che si moltiplicavano come Goomba e un paio di casini personali che avrei volentieri parcheggiato in un warp zone lontanissima ha finito per schiacciarmi fino al punto di rottura. Il risultato è stato un burnout vero, profondo, di quelli che ti svuotano e ti spezzano il ritmo interiore.

Il punto è che burnout e depressione, pur non essendo la stessa cosa, sembrano parenti stretti che si scambiano il cappotto all’ingresso. Il burnout nasce in genere da un logoramento prolungato — lavorativo, emotivo, relazionale — che ti consuma poco alla volta, come una batteria che resta sempre in modalità “risparmio energetico” senza mai ricaricarsi davvero. La depressione è una condizione clinica più ampia e complessa, ma i due mondi si sovrappongono spesso: la stanchezza costante, la difficoltà a provare piacere nelle cose, il sentirsi scollegati da sé stessi, la perdita di motivazione e quel pensiero ricorrente che “non ce la farò mai a tornare come prima”.

Il burnout può non arrivare al buio profondo della depressione maggiore, ma ne condivide la modalità: ti annebbia il giudizio, ti toglie il colore dalle giornate, ti fa vivere ogni gesto come un ostacolo in più da superare. E soprattutto — qui sta la trappola — può trasformarsi nella porta d’ingresso della depressione se ignorato o minimizzato.

Ne sono uscito solo cambiando radicalmente stile di vita, prendendo tempo per me, viaggiando e ricucendo le priorità. Ma il burnout, proprio come i boss più ostinati, a volte torna a presentare il conto: non ogni giorno, non sempre allo stesso modo, ma abbastanza da ricordarti che la partita non è mai completamente chiusa.

Puerto Escondido: il paradiso sbagliato

Due anni fa, quel vecchio fantasma ha bussato di nuovo alla porta, e lo ha fatto in un momento che sulla carta avrebbe dovuto essere perfetto.

Ero in Messico, zona Puerto Escondido. Da nomade digitale, abituato a vivere in giro per il mondo, avrei dovuto sentirmi nel mio elemento: amici di vecchia data nei paraggi, clima morbido, onde che sembrano disegnate da uno shader particolarmente romantico.

E invece niente. Il vibe locale, quella miscela di surf, yoga e vita alla giornata, mi scivolava addosso. La zona, ormai super gentrificata, oscillava tra il fasto da cartolina e un’insofferenza sempre più evidente da parte dei local.

A complicare le cose, arrivavo lì in un momento di grande trasformazione personale: avevo appena finito un master, mi muovevo tra progetti importanti, con un senso di scopo che finalmente tornava a pulsare. Ero in modalità “costruire”, non “galleggiare”.

E invece Puerto Escondido pullulava di gente che lavorava una stagione, incassava abbastanza per qualche mese di birrette oceaniche e poi… si vede. Una filosofia perfettamente legittima, quasi invidiabile, ma per me era come osservare un ecosistema che parlava un dialetto emotivo che non conoscevo più.

Io ero lì con la testa piena di obiettivi e visioni di lungo periodo; loro viaggiavano leggeri, con il presente come unico bagaglio a mano. Nessun giudizio: solo un distacco crescente, una sensazione da pesce fuor d’acqua.

Mentre tutti attorno sembravano entrare e uscire dalle feste come NPC perfettamente programmati per il buonumore, io mi sentivo fuori posto. Loro si divertivano con una naturalezza da trailer turistico, surf all’alba e tequila al tramonto; io arrancavo dietro a un’energia che non era la mia.

E poi c’era l’età: avevo appena compiuto 46 anni, quel punto in cui ti aspetti di aver risolto almeno il tutorial della vita, e invece sei ancora lì a premere tasti a caso. In mezzo a ventenni e trentenni fluttuanti tra beach party e volontariato spirituale, ero la figura fuori posto: troppo adulto per fingere leggerezza, troppo stanco per improvvisarla, troppo lucido per ignorare la frattura che si stava aprendo sotto i piedi.

Ed è in quella discrepanza — tra la festa intorno e il silenzio dentro — che il down ha iniziato a premere con tutta la sua forza.

Ritrovare sé stessi, un livello alla volta

Ed è stato proprio lì, in quel miscuglio di solitudine paradossale e rumore di festa, che ho trovato un appiglio inatteso: Super Mario 3D World.

Una sera, dopo l’ennesima giornata passata a sentirmi fuori fase con il mondo, ho acceso la Switch quasi per riflesso. E nel momento in cui il jingle di apertura ha riempito la camera, tutto ha fatto click.

La bellezza di quel gioco, in quella situazione, era la sua capacità di darmi ciò che fuori mancava: una struttura chiara, un obiettivo alla volta, un ritmo comprensibile. Là fuori mi sentivo un quarantenne spaesato, lì dentro ero di nuovo un giocatore con una direzione, un percorso, un micro-scopo chiaro che, in quel momento, valeva più di mille feste perfette.

Super Mario 3D World non mi chiedeva di essere leggero: mi aiutava a ritrovarla, un grammo alla volta.

Una delle cose più sorprendenti di Super Mario 3D World, in quel periodo, è stata la facilità con cui riusciva a riportarmi a uno stato mentale che non provavo da anni: la sensazione di tornare bambino. Non in senso ingenuo o nostalgico da poster motivazionale, ma in quel modo autentico in cui il cervello si concede finalmente di abbassare le difese.

Ogni volta che entravo in un livello, era come infilarmi sotto una coperta che conoscevo benissimo: le musiche leggere, i suoni familiari, quelle animazioni morbide che sembrano uscire da un’epoca della vita in cui tutto era più semplice. Non c’era bisogno di spiegare nulla, non c’era da “performare”: c’era solo da giocare.

Ed è incredibile quanto sollievo possa dare essere cullati da qualcosa che parla la lingua della tua infanzia, quando fuori tutto sembra urlare in un idioma che non capisci più. In Messico, mentre il mondo reale mi chiedeva di sintonizzarmi su frequenze emotive sbagliate per me, Mario mi riportava su una banda che conoscevo perfettamente: quella della meraviglia, del ritmo, del piccolo progresso che scalda il cuore.

Per un’ora al giorno, forse meno, non ero il quarantenne smarrito che cercava il proprio posto tra surfisti e nottambuli: ero il bambino che si stupiva di nuovo di fronte a un livello fatto bene. Ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno.

Perché funziona

La verità è che Super Mario 3D World funziona benissimo come gioco-comfort perché parla la lingua che in quei momenti la mente capisce ancora: regolarità, chiarezza, piccole vittorie.

Il suo design “a vignette” è una benedizione per chi ha la testa impastata: ogni livello è breve, nitido, perfettamente contenuto. Non ti chiede immersioni infinite, non pretende concentrazione maratonetica; ti offre invece micro-percorsi che si chiudono in cinque minuti, ciascuno con un obiettivo limpido e una struttura che restituisce immediatamente un senso di competenza.

È l’opposto dei mondi sconfinati che ti lasciano scegliere “cosa fare” quando tu non sai nemmeno “come stare”: 3D World ti prende per mano, ti propone un puzzle elegante, ti dà un feedback chiaro e ti rimette in pista.

In più, la sua estetica zuccherina — colori pastello, musiche leggere, animazioni buffe — non è solo un vezzo artistico: è un balsamo emotivo. È difficile sentirsi completamente sbagliati quando un Mario-gatto si arrampica su un muro come se stesse facendo ginnastica per bambini.

E poi c’è il ritmo, quel flusso continuo di idee che si alternano senza strafare: abbastanza vario da stimolarti, abbastanza contenuto da non sopraffarti. In un periodo in cui la realtà fuori sembrava un livello progettato male, 3D World era il livello progettato benissimo che mi ricordava che, da qualche parte, le cose potevano ancora avere un senso.

La difficoltà giusta

Ricordavo Super Mario 3D World come un titolo quasi troppo permissivo. La prima volta, ai tempi del Wii U, lo avevo archiviato nella categoria dei “platform gentili”: brillante, sì, ma con una difficoltà che raramente ti mordeva le caviglie.

Ma in Messico quella percezione si è ribaltata del tutto. Quella “facilità” che un tempo mi sembrava un difetto lì è diventata una virtù chirurgica: il livello esatto di permissività che serve quando la tua mente non è in forma e ha bisogno di un’esperienza che non la faccia sentire in fallimento ogni tre minuti.

3D World non ti punisce con cattiveria, non ti schiaccia, non ti espone alla frustrazione: ti incoraggia, ti accarezza l’ego quel tanto che basta a tenerti in movimento. È un gioco che concede spazio all’errore senza trasformarlo in giudizio, che ti permette di sperimentare senza il timore di perdere tutto.

In quel contesto emotivo, la sua difficoltà morbida non era “banale”: era calibrata, precisa, quasi terapeutica. Non avevo bisogno di un platform che mettesse alla prova la mia abilità; avevo bisogno di un platform che mettesse in pausa la mia ansia. E 3D World ci riusciva con la naturalezza con cui altri giochi, ben più ambiziosi, provano a fallire da anni.

Un Mario diverso, stessa medicina

Lo studio tedesco parlava di Super Mario Odyssey, certo: un’avventura gigantesca, scintillante, costruita proprio per stupire e tenerti agganciato livello dopo livello. Ma per me, invece, il gioco che ha fatto scattare qualcosa è stato Super Mario 3D World.

Non ha la grandeur esplorativa di Odyssey, non ha i regni sconfinati né le acrobazie del cappello posseduto: ha qualcosa di più discreto, più umile, più… calibrato. E forse è proprio questo il punto. Mentre i ricercatori misuravano la luce nei volti di chi attraversava New Donk City, io la ritrovavo negli angoli squadrati e gentili dei livelli di 3D World, in quel ritmo perfetto che ti tiene per mano senza tirare né spingere.

È paradossale: lo studio parlava di un altro Mario, ma la sua conclusione — quella scintilla di benessere, di motivazione ritrovata — io l’ho vissuta su un palco diverso, con un protagonista ugualmente baffuto ma con un mood tutto suo.

Ed è anche grazie a questo intreccio imprevisto tra scienza e vita che Super Mario 3D World è diventato per me uno dei migliori giochi di sempre: non solo per come è progettato, ma per come mi ha tenuto insieme quando ne avevo più bisogno.

Alla fine, questa storia non parla davvero di me in Messico né di quanto fosse stonata la colonna sonora emotiva in mezzo a un mare di surfisti felici. Non parla nemmeno solo di Mario, per quanto il buon idraulico baffuto abbia fatto più per il mio equilibrio mentale di molti manuali di auto aiuto.

Parla di un’idea semplice, che continuiamo a sottovalutare: i videogiochi, quando sono fatti con cura e intelligenza, possono diventare luoghi. Rifugi. Stanze sicure in cui respirare quando fuori l’aria si fa troppo pesante.

Lo studio tedesco ha provato a dimostrarlo con dati e tabelle; io l’ho scoperto nel modo più disordinato e umano possibile, ritrovandomi in una stanza a Puerto Escondido con la testa piena di pensieri e un Mario-gatto che mi restituiva un pezzo di serenità alla volta.

E forse è proprio questo il potere dei videogiochi: non quello di salvarci — per quello servono cambiamenti reali, tempo, cura — ma quello di accompagnarci mentre proviamo a salvarci da soli. Di ricordarci che siamo ancora capaci di stupirci, di imparare, di ripartire da zero senza vergogna. Di offrirci un livello ben progettato anche quando la nostra vita sembra tutto fuorché tale.

Per questo Super Mario 3D World, ormai, non è solo uno dei miei giochi preferiti: è un promemoria gentile che porto con me. Che nei momenti in cui tutto sembra troppo, a volte basta solo premere “Start”.

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Collezionismo e Merchandise

L’arte di Cuphead alla MGWCMX 2025: dietro le quinte dell’Artbook Tomadachi Press

Alla Milan Games Week 2025 Dario Moccia e lo staff di Tomodachi Press presente hanno presentato l’Official Artbook di Cuphead: un viaggio tra arte e carte collezionabili

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La Milan Games Week 2025 si è confermata ancora una volta come uno degli appuntamenti più importanti per il mondo dei videogiochi, della cultura pop e dell’intrattenimento digitale. Tra anteprime, ospiti internazionali, tornei esport e novità hardware, uno degli eventi più intensi e applauditi si è svolto al Sullivan Stage Powered by Game Life, dove è andato in scena il panel dedicato a Cuphead – Out of the Cards, l’Official Artbook che celebra il celebre videogioco attraverso l’arte di decine di artisti.

Un incontro attesissimo, che ha richiamato non solo i fan del titolo di Studio MDHR, ma anche collezionisti, illustratori, appassionati di street art, fumetti, animazione e cultura nerd a 360 gradi. Protagonista sul palco parte del team di Tomodachi Press: Dario Moccia, Davide Masella, Plot Jacobs, Nico Ray e numerosi altri artisti che hanno contribuito a rendere questo progetto una vera e propria opera corale.

Cuphead: Out of the Cards - Official Trailer : r/Cuphead

Un progetto nato quasi per necessità

Durante il panel è stato raccontato come l’artbook sia nato in modo del tutto naturale. Nel corso della produzione del set di carte collezionabili ispirate a Cuphead, il team si è trovato con una quantità enorme di materiale di “scarto”: bozze preparatorie, versioni alternative, prove di colore, reinterpretazioni e concept che non avevano trovato spazio nel prodotto finale.

Da qui l’idea: racchiudere tutto in un volume che raccontasse il dietro le quinte dell’intero progetto. Non un semplice artbook celebrativo, ma una vera e propria cronaca visiva del processo creativo. Il risultato è un volume imponente da 416 pagine, diventato immediatamente un oggetto da collezione. L’edizione deluxe, arricchita da cofanetto e dettagli esclusivi, è andata rapidamente sold out, segno di un entusiasmo straordinario da parte del pubblico.

A impreziosire ulteriormente l’opera è la prefazione dei fratelli Moldenhauer, i creatori originali di Cuphead, che hanno voluto personalmente commentare il progetto, riconoscendone il valore artistico e l’approccio rispettoso verso l’opera originale.

La visione di Dario Moccia e la direzione artistica

JapOn - Cuphead - Out Of The Cards Box - Dario Moccia

Il cuore creativo dell’intero progetto è stato Dario Moccia, che ha curato la direzione artistica in ogni sua fase. Il suo lavoro non si è limitato al semplice coordinamento: ha selezionato gli artisti, assegnato soggetti, definito stili e guidato ogni singolo artwork.

Il metodo di lavoro è stato chiaro fin dall’inizio:

“In base al soggetto sceglievo prima lo stile, poi l’artista”.

Una scelta che ha permesso di ottenere un set estremamente vario sul piano estetico, ma allo stesso tempo coerente con l’anima di Cuphead. Ogni carta diventa così un’opera unica, che reinterpreta personaggi, boss e ambientazioni attraverso tecniche differenti: illustrazione tradizionale, pittura digitale, graffiti, scultura, 3D, murales e animazione.

Dal murales alla carta: l’arte che si fa collezione

Uno degli episodi più affascinanti raccontati sul palco riguarda la trasformazione di un murale reale, dipinto in Valcamonica, in una carta collezionabile. Un’opera gigantesca, alta circa 4 metri e larga 8, realizzata su un muro vero, poi ridotta alle dimensioni di una carta da gioco.

All’interno dell’artbook sono documentate tutte le fasi del lavoro:

  • sopralluoghi

  • realizzazione dal vivo con l’uso della gru

  • fotografie di produzione

  • correzioni in tempo reale

Non solo: sono state inserite persino le coordinate GPS per permettere ai fan di andare a vedere l’opera dal vivo. Un esempio perfetto di come street art e collezionismo possano fondersi in un unico progetto creativo.

Un’attenzione maniacale per ogni dettaglio

Cuphead - Out of the Cards" - Official Artbook | Regular Edition – Tomodachi Press

Durante la produzione del set, anche gli elementi più piccoli hanno richiesto un lavoro enorme. Emblematico il caso delle icone di gioco: inizialmente erano state inserite quelle originali del titolo, ma a produzione quasi ultimata è arrivata la richiesta di rielaborarle completamente.

Questo ha portato alla realizzazione di oltre 160 nuove icone disegnate da zero, ciascuna reinterpretata in modo artistico. Un lavoro titanico, che ha richiesto settimane di produzioni serrate, bozze, revisioni e rifiniture. Tutto questo processo è oggi documentato nelle ultime pagine dell’artbook, rendendo il volume una vera miniera di contenuti per appassionati e addetti ai lavori.

Il sogno degli artisti: lavorare su Cuphead

Box "Cuphead - Out Of The Cards" – Tomodachi Press

Molti artisti presenti sul palco hanno raccontato quanto questo progetto sia stato, per loro, la realizzazione di un sogno coltivato fin dall’infanzia. Alcuni provengono dal mondo delle carte collezionabili, cresciuti tra Pokémon, Yu-Gi-Oh! e Magic. Altri arrivano dalla street art, dall’illustrazione o dal 3D.

Per tutti, lavorare su un brand come Cuphead ha rappresentato una sfida enorme:

  • da un lato la libertà creativa

  • dall’altro il rispetto del canone originale

  • in mezzo, la necessità di adattare ogni opera alle regole tecniche della stampa e della carta

Il risultato finale dimostra che questo equilibrio è stato raggiunto pienamente.

Il rapporto con i collezionisti

Uno degli aspetti più emozionanti emersi dal panel è stato il rapporto diretto con i fan e i collezionisti. Molti hanno raccontato di:

  • aver iniziato a collezionare proprio grazie a Cuphead – Out of the Cards

  • aver scoperto il gioco solo dopo aver trovato una carta

  • aver completato interi set, cercando varianti numerate, sketch e alterazioni

All’estero, in particolare, il successo è stato sorprendente: centinaia di box venduti online in pochissimo tempo, anche in Paesi dove la comunicazione italiana non era arrivata direttamente. Segno che la forza del progetto è stata soprattutto artistica e non solo legata al brand.

Quando il videogioco diventa arte

Cuphead – Out of the Cards non è solo un artbook e non è solo un set di carte. È un progetto che dimostra come il videogioco possa diventare:

  • opera d’arte visiva

  • oggetto da collezione

  • racconto creativo

  • esperienza culturale condivisa

La consacrazione alla Milan Games Week 2025 rappresenta il riconoscimento definitivo di questo percorso. Un esempio concreto di come passione, talento e lavoro di squadra possano trasformare un videogioco in una piattaforma artistica capace di unire mondi diversi.

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Videogiochi

Checkpoint: Le notizie dal mondo dei videogiochi dal 1 al 7 Dicembre 2025

Su Checkpoint tutte le principali notizie videoludiche dal 1 al 7 dicembre 2025: Metroid Prime 4, Horses, Netflix e Warner Bros, Resident Evil Requiem

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La prima settimana di dicembre 2025 conferma ancora una volta quanto il mondo dei videogiochi resti in continuo fermento. Dalle scelte creative di Nintendo alle tensioni legali tra Sony e Tencent, passando per l’espansione sempre più aggressiva di Netflix nel mercato dell’intrattenimento globale, questa settimana ha offerto spunti di riflessione importanti anche sul futuro dell’industria.
Ecco tutte le notizie più rilevanti dal 1 al 7 dicembre 2025. Ovviamente solo su Checkpoint!

Metroid Prime 4: tra lodi, polemiche e scelte divisive

Metroid Prime™ 4: Beyond – Nintendo Switch™ 2 Edition Upgrade Pack for Nintendo Switch 2 - Nintendo Official Site

Dopo anni di silenzio, rinvii e teaser, Metroid Prime 4 è finalmente arrivato. L’attesa dei fan era enorme e le aspettative altissime. L’uscita del titolo ha però diviso pubblico e critica.

Da un lato, molti giocatori lodano il level design delle aree principali, che riesce a richiamare con forza lo spirito dell’originale Metroid Prime su GameCube. Le sezioni di combattimento risultano fluide, dinamiche e ben strutturate, regalando soddisfazioni soprattutto ai veterani della saga.

Dall’altro lato, numerose scelte di design hanno acceso un acceso dibattito. I dialoghi di alcuni personaggi risultano troppo lunghi e poco incisivi, rallentando il ritmo dell’avventura. A far discutere ancora di più sono però le nuove sezioni open world in moto, che spezzano l’equilibrio classico della serie.

Il gioco alterna così due anime molto diverse:

  • da una parte, fasi di gunplay serrate e appaganti;

  • dall’altra, momenti più lenti, con ampie zone desertiche da attraversare in sella alla moto.

Secondo diversi analisti, Nintendo avrebbe spinto lo sviluppo verso un’impostazione più vicina a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, nel tentativo di allargare il pubblico. Tuttavia, queste aree risultano spesso ampie ma povere di attività, con poche missioni secondarie, oggetti rari da raccogliere e una sensazione generale di dispersione.

The Metroid Prime 4: Beyond amiibo look fantastic, but what in-game benefits do they offer? - Adventure Gamers

A rendere il tutto ancora più controverso interviene la gestione della colonna sonora. Nintendo consente di attivare la musica di sottofondo durante le sezioni in moto solo tramite un amiibo dedicato da circa 20 euro. Questa scelta ha diviso la community.

Molti la considerano una forma di monetizzazione aggressiva. L’azienda, invece, difende la decisione parlando di contenuto opzionale. In ogni caso, Metroid Prime 4 resta uno dei titoli più discussi e analizzati del momento.

Denuncia Sony vs Tencent: Stealth Frontiers finisce sotto osservazione

Analysis of Sony's lawsuit against Tencent with comments from legal experts: focus on intent, calculation of compensation, and other nuances | WN Hub

La disputa legale tra Sony e Tencent entra in una fase ancora più delicata. Tencent ha deciso di bloccare la promozione del suo MMORPG Stealth Frontiers, accusato di prendere forti ispirazioni dal mondo di Horizon.

Tencent aveva annunciato il gioco nell’estate del 2023 con l’obiettivo di creare un grande open world online ambientato in uno scenario post-apocalittico. Lo sviluppo prosegue regolarmente, ma lo stop alla promozione segnala la serietà delle contestazioni sollevate da Sony.

Il blocco non rappresenta solo una mossa cautelativa. Mostra anche quanto il tema della proprietà intellettuale sia diventato centrale nel mercato globale. Se la disputa dovesse aggravarsi, le conseguenze potrebbero influenzare sia il futuro del gioco sia i rapporti tra i due colossi.

The Gods Slayer: l’action GDR che arriva dalla Cina

PlayStation China Hero Project action RPG The God Slayer from Pathea Games announced - Gematsu

Patia Games ha pubblicato il primo vero video gameplay di The Gods Slayer, il suo nuovo action GDR open world. Il titolo immerge i giocatori in una metropoli steampunk di ispirazione orientale, tra architetture futuristiche e atmosfere cupe.

Il gioco punta su:

  • combattimenti ad alta velocità,

  • esplorazione verticale,

  • una narrazione che promette colpi di scena.

In origine Patia Games lo aveva annunciato come esclusiva PlayStation 5. Ora arriva la conferma anche per PC e Xbox, segnale di una strategia multipiattaforma più ampia. Manca ancora una data d’uscita ufficiale, ma l’interesse del pubblico cresce rapidamente.

Resident Evil Requiem: cresce l’attesa per il nuovo capitolo

Resident Evil Requiem - Reveal Trailer

Capcom ha fissato l’uscita di Resident Evil Requiem per il 27 febbraio 2026 su PC, PS5 e Xbox Series X. In questi giorni è apparso un breve filmato gameplay che mostra una sezione di combattimento particolarmente intensa.

Secondo alcune indiscrezioni, il video proverrebbe dalla versione censurata giapponese, una pratica storica per la saga. Nonostante questo, i fan hanno già iniziato ad analizzare ogni singolo fotogramma.

Ora l’attenzione si sposta su una possibile demo pre-lancio, che potrebbe arrivare nei prossimi mesi. L’attesa resta altissima e il titolo si prepara a diventare uno degli survival horror più importanti del 2026.

Horses di Santa Ragione: la censura su Steam non si ferma

HORSES: perchè Steam ha censurato il gioco di Santa Ragione

Valve ha rifiutato in via definitiva la pubblicazione di Horses, il gioco horror-surrealista sviluppato dallo studio italiano Santa Ragione. Steam giustifica la decisione con una build del 2023 giudicata non conforme alle linee guida.

Nonostante le modifiche effettuate dagli sviluppatori, la piattaforma ha mantenuto il blocco. Santa Ragione ha quindi deciso di distribuire il gioco su GOG al prezzo di 4,99 euro.

La risposta del pubblico è stata immediata: Horses ha raggiunto in pochissimo tempo il primo posto nelle vendite. Il caso ha riacceso il dibattito su:

  • censura preventiva,

  • potere delle piattaforme digitali,

  • libertà creativa degli sviluppatori indipendenti.

Netflix acquisisce Warner Bros: nasce un colosso dell’intrattenimento

Netflix Acquires WB But Their One Promise To Save Theaters Is Making a Deal With The Devil Itself

La notizia più clamorosa della settimana riguarda Netflix, che ha completato l’acquisizione di Warner Bros Discovery per 82,7 miliardi di dollari. L’operazione coinvolge cinema, serie TV e anche importanti studi di sviluppo videoludico.

Tra i team inclusi figurano:

  • Rocksteady

  • TT Games

  • Avalanche

  • Realms Studios

Netflix si trasforma così in un vero gigante cross-mediale, capace di controllare film, serie e videogiochi. Nei prossimi anni potremmo assistere a una sempre maggiore integrazione tra i vari media, con franchise capaci di muoversi tra piattaforme diverse con continuità.

La settimana dal 1 al 7 dicembre 2025 dimostra ancora una volta quanto l’industria videoludica resti un ecosistema complesso, dinamico e in continua trasformazione. Tra produzioni controverse, scontri legali internazionali e operazioni finanziarie miliardarie, il settore vive una fase di cambiamento profondo.

Il 2026 si avvicina con promesse importanti. Noi continueremo a raccontarle su Checkpoint, passo dopo passo.

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