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Essenza Ludica: I’d buy that for a dollar! La follia perfetta di Smash T.V.
Su Essenza Ludica si parla di Smash TV, twin stick shooter cult per atmosfera e gameplay. Preparatevi a una puntata di luci, sangue e synth
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4 settimane agoil

Ah, Smash T.V.!
Il gioco che nel 1990 prese l’idea di un quiz televisivo e la mescolò con il Vietnam, un’arena gladiatoria e un trip di testosterone pixelato. Pubblicato da Williams e firmato da Eugene Jarvis (lo stesso folle genio dietro Robotron: 2084 e Defender), Smash T.V. è una di quelle esperienze che sembrano urlare contro il giocatore:
“Vuoi vincere? Bene, allora muori provandoci.”
Un twin-stick shooter brutale, iper-violento e ironico, dove il premio è “denaro, auto e bellissime ragazze”… e la punizione è la morte istantanea, moltiplicata per cento.
In un’epoca in cui i cabinati da sala volevano solo prosciugare gettoni e riflessi, Smash T.V. trasformò il massacro in spettacolo, anticipando la fame di reality show e la critica alla cultura dell’intrattenimento estremo. Prima di Battle Royale, prima di The Hunger Games, c’era già lui: il concorrente senza nome che affrontava ondate di nemici e boss improbabili con la sola speranza di sentire, a fine livello, la frase più dolce mai detta da un presentatore digitale:
“I’d buy that for a dollar!” (Lo comprerei per un dollaro!)
Quando Smash T.V. sbarcò nelle sale giochi nel 1990, il panorama videoludico era in piena mutazione. Le case come Capcom e Konami stavano ridefinendo il concetto di azione con picchiaduro e run’n’gun sempre più frenetici, mentre l’arcade occidentale cercava la sua identità tra il caos nipponico e la nostalgia degli shooter anni ’80. Williams, già celebre per i flipper e per i titoli dal gusto “metallico” come NARC, trovò la sua nicchia: l’eccesso. E Smash T.V. era l’apoteosi di quell’estetica.
Figlio diretto di Robotron: 2084 (di cui eredita il sistema di controllo a doppia levetta e la logica “sopravvivi finché puoi”), il gioco ne amplifica ogni aspetto: più nemici, più armi, più caos, più schermi lampeggianti che sembrano urlare “Game Over” ancor prima di iniziare. Ma c’è anche un elemento narrativo, per quanto delirante: il futuro distopico in cui i giochi televisivi sono diventati arene mortali. Un concetto che, a rivederlo oggi, anticipa non solo la satira di Running Man o Black Mirror, ma anche la dinamica ludica dei roguelike moderni, dove la morte è routine e la ricompensa è sopravvivenza.
Se gli arcade degli anni ’80 chiedevano di “migliorarsi”, Smash T.V. chiedeva solo una cosa: resistere un minuto in più. Un manifesto brutale del videogioco come performance, dove il sangue è pixel, ma la tensione è terribilmente reale.
L’ambientazione di Smash T.V. è un futuro tanto “prossimo” quanto assurdo, in cui la televisione è diventata l’oppio del popolo e il sangue è l’audience share. Un reality show mortale, trasmesso in diretta planetaria, dove concorrenti armati fino ai denti affrontano ondate di mutanti, robot, e carne da pixel per vincere premi che sembrano usciti da un catalogo di eccessi anni ’80: contanti, automobili, e — immancabili — le “bellissime ragazze”. Una parodia così sfrontata del consumismo da sembrare, paradossalmente, perfettamente credibile.
Ogni arena è un cubo di follia, un set televisivo in cui i muri grondano proiettili e i pavimenti sono tappezzati di cadaveri digitali. Non esistono cieli, orizzonti o vie di fuga: solo stanze illuminate da luci al neon e condite da applausi pre-registrati, come se la morte stessa fosse una gag da prime time. Il presentatore, con il suo sorriso da pubblicità di chewing gum e il carisma di un incubo corporate, incarna l’anima del gioco: una società che applaude al massacro perché “è solo intrattenimento”.
In fondo, Smash T.V. non racconta un futuro: racconta la TV di oggi, solo con meno filtri e più granate.
Luci, sangue e synth: lo spettacolo secondo Smash T.V.

Visivamente, Smash T.V. è l’incarnazione dell’eccesso anni ’90: colori acidi, animazioni frenetiche e un’orgia di pixel che riempiono lo schermo fino all’ultimo byte disponibile. Ogni stanza è un mosaico di caos organizzato — nemici, proiettili, esplosioni e premi che scintillano come slot machine impazzite. Non esiste un vero “respiro visivo”: tutto lampeggia, tutto spara, tutto esplode. È la versione videoludica di uno spot energetico che dura troppo, ma a cui non riesci a distogliere lo sguardo.
I personaggi sono caricature perfette della cultura televisiva e consumistica del tempo: il presentatore col sorriso da pubblicità di rasoi, i concorrenti in tuta da guerra come action figure impolverate, i boss che sembrano usciti da un incubo di Tetsuo: The Iron Man diretto da un regista di American Gladiators. Ogni pixel trasuda un’ironia greve, quasi punk, come se Williams avesse preso l’immaginario pop e lo avesse triturato dentro un cabinato.
Sul fronte sonoro, Smash T.V. è puro martellamento sintetico. Il sound design non accompagna l’azione: la spinge giù da una scogliera. Le mitragliate hanno il timbro metallico di un flipper impazzito, le esplosioni sono cortocircuiti sonori, e la voce del presentatore — quel “Big Money! Big Prizes!” scandito con entusiasmo da psicopatico — è diventata un mantra per chiunque abbia passato ore a bestemmiare contro il game over. Il tutto sostenuto da una colonna sonora elettronica ossessiva, tanto minimale quanto ipnotica, che ricorda i jingle pubblicitari impiantati direttamente nel cervello.
In sintesi, Smash T.V. non ti chiede di guardarlo: ti acceca. Non ti invita ad ascoltarlo: ti perfora i timpani. Ed è proprio lì, in quell’esagerazione audiovisiva senza compromessi, che trova la sua identità. Un videogioco che non vuole essere elegante — vuole essere rumore.
Sopravvivi, accumula, muori: il gameplay di Smash T.V.

Giocare a Smash T.V. è come essere l’ultimo superstite in un Black Friday post-apocalittico. Ti muovi con una levetta, spari con l’altra, e tutto il resto è pura, gloriosa sopravvivenza. La formula “twin-stick shooter” portata all’estremo: niente pause, niente tattiche complesse, solo riflessi e un istinto di sopravvivenza degno di un ratto da laboratorio. Ogni stanza è un’arena chiusa, una trappola dove l’unica via d’uscita è attraverso una montagna di cadaveri digitali.
La progressione è semplice e sadica: entri, stermini, raccogli premi (soldi, lingotti, televisori, tostapane — perché sì, anche in un bagno di sangue serve un elettrodomestico nuovo), e poi passi alla stanza successiva. La struttura di Smash T.V. è quella di un incubo metodico: niente scrolling, niente panorami, solo una successione di stanze chiuse che si aprono come ferite.
Ogni livello è una mappa vista dall’alto — una sorta di schema televisivo dell’orrore — in cui il giocatore avanza da una schermata all’altra scegliendo la direzione su un tracciato simile a un labirinto. È un design che oggi potremmo definire “room-based”, ma nel 1990 sembrava una fusione blasfema tra Bubble Bobble e RoboCop: l’innocenza della progressione a stanze fisse contaminata dalla brutalità metallica di un mondo distopico.
Ogni camera diventa un microcosmo di violenza: entri, si chiudono le porte, partono le ondate. Sopravvivi, raccogli premi, e la mappa ti offre un bivio — vai a sinistra verso un’altra carneficina o a destra per… un’altra carneficina, ma con più esplosioni. Questa struttura, apparentemente ripetitiva, in realtà crea un ritmo ossessivo e ipnotico, una coreografia del caos in cui la prevedibilità dello schema serve solo a esaltare l’imprevedibilità dell’azione.
C’è qualcosa di perversamente geniale in questa scelta: Smash T.V. trasforma la staticità della schermata fissa in tensione pura. Nessuna fuga, nessuna illusione di progresso lineare — solo un eterno ritorno del massacro, scandito da una mappa che sembra sorriderti con sadico compiacimento. In un mondo di scorrimenti fluidi e illusioni di libertà, Williams decise che il vero brivido stava nel chiuderti dentro.

L’azione non concede tregua, e la difficoltà è calibrata per punire qualsiasi esitazione. Non è un gioco da “imparare”: è un gioco da sopravvivere. Ogni power-up — mitragliatrici, shuriken, bombe intelligenti — dura pochi secondi, giusto il tempo di illuderti di avere il controllo prima che il gioco ti ricordi chi comanda davvero.
Il ritmo è così serrato da diventare trance: un loop di morte e rinascita che oggi suona familiare a chi ama i roguelike moderni (The Binding of Isaac, Enter the Gungeon), ma che nel 1990 era pura follia sperimentale. Smash T.V. anticipava il concetto di “flow” prima che qualcuno lo teorizzasse: entri in uno stato mentale in cui reagisci senza pensare, spari senza mirare, muori senza lamentarti.
Se c’è una cosa che Smash T.V. non conosce, è la moderazione. Ogni stanza trabocca di nemici come un formicaio impazzito, un’orda che sembra non rispondere a logiche di spawn ma a un istinto primordiale di sterminio reciproco. Droni, mutanti, soldati in tuta, cyborg, carne da pixel in tutte le varianti cromatiche: il gioco ti sommerge senza pietà, come se ogni frame fosse progettato per farti gridare “basta!” — e poi, ovviamente, spingerti a inserire un altro gettone.
È una filosofia del “tanto è meglio”, portata al punto di rottura. Non si tratta solo di difficoltà: è una dichiarazione estetica. La violenza non è più un mezzo, ma un elemento di scenografia, parte integrante del ritmo visivo. Mentre altri arcade dell’epoca cercavano equilibrio e pattern riconoscibili, Smash T.V. sceglie la saturazione totale: una pioggia di carnefici che trasforma ogni stanza in un inferno geometrico di pixel e proiettili incrociati.
La cosa più beffarda? Nonostante l’assurdità del numero, il caos è leggibile. Jarvis e soci erano maestri nel dosare l’impossibile: il giocatore è sempre sull’orlo del collasso, ma mai del tutto cieco. È quella linea sottilissima tra frustrazione e adrenalina che separa un game over dalla dipendenza. Alla fine, non giochi contro i nemici: giochi dentro di loro, come se fossi un singolo elettrone in un temporale di sprite impazziti.
E quando finalmente arrivi a un boss — ammassi di carne, acciaio e pixel urlanti con nomi da show business come Mutoid Man — capisci che la logica del gioco è tutta lì: spettacolo, eccesso, e un sadismo che ti fa sorridere anche mentre conti le vite rimaste. Smash T.V. non è un’esperienza equilibrata: è un test di resistenza nervosa mascherato da arcade. Eppure, nel suo delirio, è perfettamente onesto.
Not Enough Keys: il segreto che non dovevi trovare

Tra le mille follie di Smash T.V., poche storie raccontano meglio la mentalità arcade dei primi anni ’90 di quella della leggendaria “stanza segreta” — o meglio, della stanza assente. Sullo schermo appariva una scritta tanto lapidaria quanto misteriosa: “Not Enough Keys!”. Sembrava l’indizio di un livello nascosto, un mistero da scoprire a forza di gettoni e bestemmie. In realtà, il messaggio era solo la beffa finale di un sistema pensato per un contenuto che… non esisteva.
La verità è che nella prima versione del cabinato arcade, la celebre Pleasure Dome — la stanza bonus promessa come ricompensa per chi avesse raccolto abbastanza chiavi — non era stata ancora implementata. Non per errore, ma per pura, disarmante arroganza: alla Midway erano convinti che nessuno sarebbe mai arrivato così lontano. Il gioco era talmente difficile, talmente punitivo, che l’idea di un giocatore capace di sopravvivere fino al finale sembrava più fantascientifica di un cyborg presentatore di quiz.
Ma i giocatori, si sa, sono testardi come pochi. Qualcuno ci arrivò davvero, e la delusione fu epica: dopo ore di massacri e una collezione di chiavi degna di un fabbro infernale, si ritrovò di fronte a un messaggio di errore travestito da sfida. Solo dopo le proteste di arcade operator e fan, Williams decise di rilasciare una revisione del gioco che inseriva finalmente la Pleasure Dome: un tripudio di pixel, premi e ragazze digitali che sembrava più una presa in giro che un premio.
Così nacque una delle più assurde “stanze segrete” della storia dei videogiochi: non un mistero da scoprire, ma un bug di presunzione umana. E a suo modo, perfettamente coerente con lo spirito di Smash T.V. — un gioco che ti promette tutto, tranne la possibilità di vincere facilmente.
Io Smash T.V. non l’ho solo giocato: l’ho consumato, letteralmente.
La mia versione era quella per Super Nintendo, una conversione sorprendentemente fedele, nonostante l’assenza della doppia levetta tipica del cabinato. Nintendo, con la sua solita furbizia ergonomica, aveva risolto il problema mappando la direzione di fuoco sui tasti frontali: un sistema che sulla carta sembrava un incubo, ma che in realtà — dopo qualche minuto di delirio coordinativo — diventava naturale come respirare. O meglio: come sparare in otto direzioni mentre ti scagliavano contro un esercito di psicopatici digitali.
Con un amico di vecchia data — oggi coautore di questa stessa rubrica — passavamo pomeriggi interi davanti a quella cartuccia grigia, fino a farla quasi fondere nel vano del Super Nintendo. Ogni partita era una sfida personale, una maratona di riflessi, una dichiarazione di guerra al concetto stesso di “continua”. E soprattutto, una caccia ossessiva alla mitica Pleasure Dome, di cui avevamo letto su qualche rivista americana. Lì, promettevano, ci sarebbe stata la ricompensa finale per i migliori, i sopravvissuti, gli eletti del joystick.
Peccato che su SNES quella stanza non esistesse proprio. Non un bug, non un errore: semplicemente, non fu mai inserita nella conversione. Noi, ignari di questa verità crudele, la cercammo per anni — convinti che bastasse un’altra run, un altro livello, un’altra combinazione di chiavi per aprire il portale proibito del piacere digitale. Invece, niente. Solo altre stanze, altri nemici, altri “Game Over”.
A ripensarci oggi, era quasi poetico: Smash T.V. ci aveva insegnato, a modo suo, la più grande lezione del videogiocatore anni ’90 — che la ricompensa non è il premio, ma la follia di continuare a cercarlo.
Total Carnage: il seguito senza il carisma del massacro

Nel 1992 arrivò Total Carnage, seguito spirituale, che provò ad alzare la posta con nuovi scenari, un tono più “militare” e livelli a scorrimento. Un tentativo onesto di evoluzione, ma che finì per smarrire l’identità del predecessore. L’ambientazione bellica sostituì la satira televisiva con un’azione più convenzionale, e l’abbandono della schermata fissa — cuore pulsante del caos controllato di Smash T.V. — tolse parte di quella tensione claustrofobica che lo rendeva unico. Il risultato? Più carneficina, meno carattere.
Eredità di sangue e pixel
Guardando oggi Smash T.V., è difficile non riconoscere quanto la sua follia abbia lasciato un’impronta profonda — non solo nel design dei twin-stick shooter, ma nella cultura videoludica tutta. Era un gioco figlio del suo tempo, certo, ma anche un profeta inconsapevole: anticipava la fame di adrenalina dei bullet hell, la struttura “room-based” dei roguelike, e perfino la satira ultraviolenta che anni dopo avrebbe reso Hotline Miami un cult. Dove gli altri arcade cercavano gloria, Smash T.V. cercava sopravvissuti.
Il suo DNA è ovunque: nei corridoi claustrofobici di The Binding of Isaac, nelle arene psichedeliche di Geometry Wars, nei flussi infiniti di proiettili di Enter the Gungeon. Ma più che un titolo da cui copiare, Smash T.V. è rimasto un manifesto. Un gioco che rideva del consumismo, del reality e dello stesso giocatore, costringendoti a chiederti se eri tu a controllare il pad o se era lui a controllare te.
Lo ammetto: il mio cuore videoludico batte quasi sempre in giapponese. Nel mio personale bilancio da giocatore, il 95% dei titoli che amo arriva da oriente — dove il game design è disciplina zen, il ritmo è un’arte e il gameplay è sacro quanto la trama è accessoria. Gli occidentali, al contrario, li ho sempre visti come narratori brillanti ma designer disordinati: grandi storie, pessime mani.
Eppure, Smash T.V. — e la scuola Midway in generale (qualcuno ha detto Mortal Kombat?) — è una di quelle rare e gradite eccezioni alla mia teoria. Un gioco americano fino al midollo, eppure costruito con una precisione quasi nipponica: controlli impeccabili, difficoltà calibrata al millimetro, loop di gioco limpido e ossessivo. Nessuna introspezione, nessuna morale, solo un design puro e feroce che ti tiene incollato al pad per ore.
E poi, diciamolo: la sua estetica sopra le righe, quel presentatore da spot postatomico e il suo urlato “Big Money! Big Prizes!”, sono diventati parte del linguaggio videoludico — un’eco che ancora risuona nei titoli che scelgono l’ironia come arma di sopravvivenza.
Oggi Smash T.V. non è solo un reperto arcade, ma un promemoria: che la violenza può essere satira, il caos può avere ritmo, e la frustrazione può essere una forma d’arte.
E forse è proprio per questo che, a distanza di trent’anni, ogni volta che lo rivediamo partire, un pensiero ci attraversa la mente
“I’d buy that for a dollar!”
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Essenza Ludica: Quando un platform ti tiene a galla: il lato terapeutico di Mario 3D World
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Pubblicato
21 ore agoil
14 Dicembre 2025
Super Mario 3D World è uno di quei titoli che sembravano destinati a rimanere intrappolati nel purgatorio dorato del Wii U: amato da chi l’aveva giocato, ignorato dal resto del mondo perché — diciamolo — la console Nintendo meno capita dell’ultimo ventennio non era esattamente il posto ideale per un capolavoro.
Quando uscì nel 2013, il panorama videoludico stava cambiando pelle: PS4 e Xbox One inauguravano l’era dell'”open world a tutti i costi”, i tripla A lucidavano muscoli e shader, e il povero Wii U arrancava come un Toad senza power-up. In questo clima da transizione un po’ schizofrenica, Nintendo tirò fuori un platform isometrico lucidissimo, erede di 3D Land, che preferiva l’invenzione geometrica al gigantismo a mappa aperta. Un gioco che ti metteva davanti livelli cesellati con precisione ossessiva, una cooperativa irresistibile e quell’estetica da laboratorio Nintendo in stato di grazia.
Sul piano critico fu un trionfo quasi unanime. Sul piano commerciale… fece quello che poteva. Con circa sei milioni di copie vendute, 3D World diventò uno dei titoli più popolari del Wii U, ma il problema era la console stessa: un palco mezzo vuoto, incapace di dare al gioco l’esposizione che meritava. Per un Mario tridimensionale, un potenziale da 15-20 milioni buttato su una base installata di 13 scarsi era una missione impossibile. Non era il gioco ad aver sbagliato qualcosa; era il pubblico potenziale rimasto fuori dalla porta.

Quando Nintendo ha deciso di dargli una seconda vita su Switch, con l’edizione del 2021 accompagnata dall’espansione Bowser’s Fury, il mondo ha finalmente fatto la conoscenza che avrebbe dovuto fare anni prima. Le recensioni internazionali — entusiaste fino all’imbarazzo — parlavano di “trionfo”, “gioiello di precisione”, “laboratorio di creatività in formato platform”. Insomma: non era l’ennesimo Mario, era il Mario che rischiava di non essere visto.
Un design che ti tiene per mano (nel senso buono)
La struttura di Super Mario 3D World è la prova vivente che Nintendo, quando vuole, riesce a trasformare la geometria in intrattenimento puro. Niente open world dispersivi, niente hub contemplativi: qui si torna a un’impostazione a mondi e livelli, old school ma filtrata attraverso la lente tridimensionale estremamente ordinata inaugurata da 3D Land.

Ogni stage è un’idea: compatta, leggibile, autoconclusiva, progettata per durare il tempo giusto prima di sparire e lasciare spazio alla successiva. È un design “a vignette”, dove il ritmo è dato dal continuo susseguirsi di concept: un livello sul vento, uno sulle piattaforme trasparenti, uno sui doppelgänger, uno sul ritmo musicale… un carosello che ti impedisce di annoiarti perfino se ci provi.
La mappa, con la sua finta libertà di movimento, funziona da buffer respiratorio: cammini, giochi a calcio con Goomba innocenti, fai due passi in un teatrino interattivo e poi entri nel prossimo micro-mondo di follia controllata. È un platform che non ti chiede mai di sposare un’idea per ore e ore; te la presenta, te la fa assaggiare, e la sostituisce con qualcos’altro prima che il tuo entusiasmo cali. Una filosofia quasi da degustazione: piccole porzioni di creatività servite una dietro l’altra, senza appesantire mai.
La cooperativa (ovvero: come rovinare le amicizie con stile)
La cooperativa di Super Mario 3D World è quel tipo di genialata Nintendo che parte come un invito all’armonia familiare e finisce, di solito, come un test di sopravvivenza delle relazioni. Fino a quattro giocatori in contemporanea, ognuno con il proprio peso specifico sul gameplay: il salto più alto di Luigi, la velocità di Toad, la grazia acrobatica di Peach, e Mario… be’, Mario che fa il Mario.

Il livello design, già calibrato al millimetro in solitaria, si trasforma in un caos organizzato quando entra in scena la compagnia: piattaforme che diventano ring, power-up contesi come fosse l’ultimo panettone a dicembre, e quella danza continua tra collaborazione e sabotaggio involontario. È una cooperativa pensata non solo per “aggiungere gente a schermo”, ma per riscrivere il tono della partita: ogni livello cambia ritmo, difficoltà e persino comicità a seconda di quante mani — e quante intenzioni — sono coinvolte.
Il miracolo è che funziona: anziché rompersi sotto il peso dell’anarchia, il gioco la abbraccia e la trasforma in parte del divertimento. E se capita di buttare giù un amico da una piattaforma stretta… è sempre stato colpa della fisica, ovviamente.
Lo studio tedesco: quando Mario smette di essere solo un gioco
Qualche anno fa, un team di ricercatori tedeschi ha fatto ciò che molti giocatori sospettavano da tempo: ha messo Mario in un laboratorio. Non per misurargli il consumo di funghi, ma per capire se un platform ben progettato potesse avere un impatto reale sull’umore.
Il risultato? Un gruppo di partecipanti con sintomi depressivi, dopo alcune sessioni di Super Mario Odyssey, mostrava miglioramenti comparabili a quelli ottenuti con trattamenti più tradizionali, soprattutto in termini di motivazione e benessere percepito. Gli studiosi parlarono di “stimolazione cognitiva positiva” e “senso di progressione chiaro e gratificante”.
Tradotto dal linguaggio accademico: il cervello, quando gli dai qualcosa di brillante, strutturato e gentile con la dopamina, risponde. E mentre il mondo scientifico si interrogava su come un idraulico baffuto potesse avere effetti terapeutici misurabili, molti giocatori alzarono le spalle: “Benvenuti, scienziati. Noi lo diciamo dall’86.”
Lo studio:
- Titolo: “Effects of a video game intervention on symptoms, training motivation, and visuo-spatial memory in depression”
- Autori: Moritz Bergmann, Ines Wollbrandt, Lisa Gittel, Eva Halbe, Sarah Mackert, Alexandra Philipsen, Silke Lux
- Pubblicazione: 2023
- Contesto: 46 persone con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) divise in tre gruppi: chi giocava a Super Mario Odyssey su Switch, chi faceva training cognitivo con “CogPack”, e chi seguiva trattamento standard (psicoterapia e/o farmaci)
Risultati principali:
- Dopo 6 settimane, il gruppo Mario mostrava la diminuzione più significativa di sintomi depressivi clinicamente rilevanti
- Motivazione maggiore a continuare il “trattamento” ludico rispetto al gruppo CogPack
- Miglioramenti nei test su memoria visuo-spaziale e funzioni cognitive
Conclusioni dei ricercatori: Un intervento con videogiochi 3D potrebbe aumentare il benessere soggettivo, incrementare la motivazione al training e potenzialmente migliorare alcune funzioni cognitive in soggetti con depressione maggiore — con le dovute cautele sulla dimensione del campione e la necessità di ulteriori ricerche.
Messico, burnout e un idraulico baffuto
A un certo punto ho deciso che questo articolo avrebbe fatto una cosa un po’ fuori dal coro: togliersi il cappello da critico videoludico e infilarsi, per una volta, dentro il personale.
Molti anni fa ho attraversato una fase della vita che definire “pesante” è un eufemismo degno di un comunicato stampa. Un mix di stress lavorativo, responsabilità che si moltiplicavano come Goomba e un paio di casini personali che avrei volentieri parcheggiato in un warp zone lontanissima ha finito per schiacciarmi fino al punto di rottura. Il risultato è stato un burnout vero, profondo, di quelli che ti svuotano e ti spezzano il ritmo interiore.
Il punto è che burnout e depressione, pur non essendo la stessa cosa, sembrano parenti stretti che si scambiano il cappotto all’ingresso. Il burnout nasce in genere da un logoramento prolungato — lavorativo, emotivo, relazionale — che ti consuma poco alla volta, come una batteria che resta sempre in modalità “risparmio energetico” senza mai ricaricarsi davvero. La depressione è una condizione clinica più ampia e complessa, ma i due mondi si sovrappongono spesso: la stanchezza costante, la difficoltà a provare piacere nelle cose, il sentirsi scollegati da sé stessi, la perdita di motivazione e quel pensiero ricorrente che “non ce la farò mai a tornare come prima”.
Il burnout può non arrivare al buio profondo della depressione maggiore, ma ne condivide la modalità: ti annebbia il giudizio, ti toglie il colore dalle giornate, ti fa vivere ogni gesto come un ostacolo in più da superare. E soprattutto — qui sta la trappola — può trasformarsi nella porta d’ingresso della depressione se ignorato o minimizzato.
Ne sono uscito solo cambiando radicalmente stile di vita, prendendo tempo per me, viaggiando e ricucendo le priorità. Ma il burnout, proprio come i boss più ostinati, a volte torna a presentare il conto: non ogni giorno, non sempre allo stesso modo, ma abbastanza da ricordarti che la partita non è mai completamente chiusa.
Puerto Escondido: il paradiso sbagliato
Due anni fa, quel vecchio fantasma ha bussato di nuovo alla porta, e lo ha fatto in un momento che sulla carta avrebbe dovuto essere perfetto.

Ero in Messico, zona Puerto Escondido. Da nomade digitale, abituato a vivere in giro per il mondo, avrei dovuto sentirmi nel mio elemento: amici di vecchia data nei paraggi, clima morbido, onde che sembrano disegnate da uno shader particolarmente romantico.
E invece niente. Il vibe locale, quella miscela di surf, yoga e vita alla giornata, mi scivolava addosso. La zona, ormai super gentrificata, oscillava tra il fasto da cartolina e un’insofferenza sempre più evidente da parte dei local.
A complicare le cose, arrivavo lì in un momento di grande trasformazione personale: avevo appena finito un master, mi muovevo tra progetti importanti, con un senso di scopo che finalmente tornava a pulsare. Ero in modalità “costruire”, non “galleggiare”.
E invece Puerto Escondido pullulava di gente che lavorava una stagione, incassava abbastanza per qualche mese di birrette oceaniche e poi… si vede. Una filosofia perfettamente legittima, quasi invidiabile, ma per me era come osservare un ecosistema che parlava un dialetto emotivo che non conoscevo più.
Io ero lì con la testa piena di obiettivi e visioni di lungo periodo; loro viaggiavano leggeri, con il presente come unico bagaglio a mano. Nessun giudizio: solo un distacco crescente, una sensazione da pesce fuor d’acqua.
Mentre tutti attorno sembravano entrare e uscire dalle feste come NPC perfettamente programmati per il buonumore, io mi sentivo fuori posto. Loro si divertivano con una naturalezza da trailer turistico, surf all’alba e tequila al tramonto; io arrancavo dietro a un’energia che non era la mia.
E poi c’era l’età: avevo appena compiuto 46 anni, quel punto in cui ti aspetti di aver risolto almeno il tutorial della vita, e invece sei ancora lì a premere tasti a caso. In mezzo a ventenni e trentenni fluttuanti tra beach party e volontariato spirituale, ero la figura fuori posto: troppo adulto per fingere leggerezza, troppo stanco per improvvisarla, troppo lucido per ignorare la frattura che si stava aprendo sotto i piedi.
Ed è in quella discrepanza — tra la festa intorno e il silenzio dentro — che il down ha iniziato a premere con tutta la sua forza.
Ritrovare sé stessi, un livello alla volta
Ed è stato proprio lì, in quel miscuglio di solitudine paradossale e rumore di festa, che ho trovato un appiglio inatteso: Super Mario 3D World.
Una sera, dopo l’ennesima giornata passata a sentirmi fuori fase con il mondo, ho acceso la Switch quasi per riflesso. E nel momento in cui il jingle di apertura ha riempito la camera, tutto ha fatto click.

La bellezza di quel gioco, in quella situazione, era la sua capacità di darmi ciò che fuori mancava: una struttura chiara, un obiettivo alla volta, un ritmo comprensibile. Là fuori mi sentivo un quarantenne spaesato, lì dentro ero di nuovo un giocatore con una direzione, un percorso, un micro-scopo chiaro che, in quel momento, valeva più di mille feste perfette.
Super Mario 3D World non mi chiedeva di essere leggero: mi aiutava a ritrovarla, un grammo alla volta.
Una delle cose più sorprendenti di Super Mario 3D World, in quel periodo, è stata la facilità con cui riusciva a riportarmi a uno stato mentale che non provavo da anni: la sensazione di tornare bambino. Non in senso ingenuo o nostalgico da poster motivazionale, ma in quel modo autentico in cui il cervello si concede finalmente di abbassare le difese.
Ogni volta che entravo in un livello, era come infilarmi sotto una coperta che conoscevo benissimo: le musiche leggere, i suoni familiari, quelle animazioni morbide che sembrano uscire da un’epoca della vita in cui tutto era più semplice. Non c’era bisogno di spiegare nulla, non c’era da “performare”: c’era solo da giocare.
Ed è incredibile quanto sollievo possa dare essere cullati da qualcosa che parla la lingua della tua infanzia, quando fuori tutto sembra urlare in un idioma che non capisci più. In Messico, mentre il mondo reale mi chiedeva di sintonizzarmi su frequenze emotive sbagliate per me, Mario mi riportava su una banda che conoscevo perfettamente: quella della meraviglia, del ritmo, del piccolo progresso che scalda il cuore.
Per un’ora al giorno, forse meno, non ero il quarantenne smarrito che cercava il proprio posto tra surfisti e nottambuli: ero il bambino che si stupiva di nuovo di fronte a un livello fatto bene. Ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Perché funziona
La verità è che Super Mario 3D World funziona benissimo come gioco-comfort perché parla la lingua che in quei momenti la mente capisce ancora: regolarità, chiarezza, piccole vittorie.
Il suo design “a vignette” è una benedizione per chi ha la testa impastata: ogni livello è breve, nitido, perfettamente contenuto. Non ti chiede immersioni infinite, non pretende concentrazione maratonetica; ti offre invece micro-percorsi che si chiudono in cinque minuti, ciascuno con un obiettivo limpido e una struttura che restituisce immediatamente un senso di competenza.
È l’opposto dei mondi sconfinati che ti lasciano scegliere “cosa fare” quando tu non sai nemmeno “come stare”: 3D World ti prende per mano, ti propone un puzzle elegante, ti dà un feedback chiaro e ti rimette in pista.

In più, la sua estetica zuccherina — colori pastello, musiche leggere, animazioni buffe — non è solo un vezzo artistico: è un balsamo emotivo. È difficile sentirsi completamente sbagliati quando un Mario-gatto si arrampica su un muro come se stesse facendo ginnastica per bambini.
E poi c’è il ritmo, quel flusso continuo di idee che si alternano senza strafare: abbastanza vario da stimolarti, abbastanza contenuto da non sopraffarti. In un periodo in cui la realtà fuori sembrava un livello progettato male, 3D World era il livello progettato benissimo che mi ricordava che, da qualche parte, le cose potevano ancora avere un senso.
La difficoltà giusta
Ricordavo Super Mario 3D World come un titolo quasi troppo permissivo. La prima volta, ai tempi del Wii U, lo avevo archiviato nella categoria dei “platform gentili”: brillante, sì, ma con una difficoltà che raramente ti mordeva le caviglie.
Ma in Messico quella percezione si è ribaltata del tutto. Quella “facilità” che un tempo mi sembrava un difetto lì è diventata una virtù chirurgica: il livello esatto di permissività che serve quando la tua mente non è in forma e ha bisogno di un’esperienza che non la faccia sentire in fallimento ogni tre minuti.
3D World non ti punisce con cattiveria, non ti schiaccia, non ti espone alla frustrazione: ti incoraggia, ti accarezza l’ego quel tanto che basta a tenerti in movimento. È un gioco che concede spazio all’errore senza trasformarlo in giudizio, che ti permette di sperimentare senza il timore di perdere tutto.
In quel contesto emotivo, la sua difficoltà morbida non era “banale”: era calibrata, precisa, quasi terapeutica. Non avevo bisogno di un platform che mettesse alla prova la mia abilità; avevo bisogno di un platform che mettesse in pausa la mia ansia. E 3D World ci riusciva con la naturalezza con cui altri giochi, ben più ambiziosi, provano a fallire da anni.
Un Mario diverso, stessa medicina
Lo studio tedesco parlava di Super Mario Odyssey, certo: un’avventura gigantesca, scintillante, costruita proprio per stupire e tenerti agganciato livello dopo livello. Ma per me, invece, il gioco che ha fatto scattare qualcosa è stato Super Mario 3D World.
Non ha la grandeur esplorativa di Odyssey, non ha i regni sconfinati né le acrobazie del cappello posseduto: ha qualcosa di più discreto, più umile, più… calibrato. E forse è proprio questo il punto. Mentre i ricercatori misuravano la luce nei volti di chi attraversava New Donk City, io la ritrovavo negli angoli squadrati e gentili dei livelli di 3D World, in quel ritmo perfetto che ti tiene per mano senza tirare né spingere.
È paradossale: lo studio parlava di un altro Mario, ma la sua conclusione — quella scintilla di benessere, di motivazione ritrovata — io l’ho vissuta su un palco diverso, con un protagonista ugualmente baffuto ma con un mood tutto suo.
Ed è anche grazie a questo intreccio imprevisto tra scienza e vita che Super Mario 3D World è diventato per me uno dei migliori giochi di sempre: non solo per come è progettato, ma per come mi ha tenuto insieme quando ne avevo più bisogno.
Alla fine, questa storia non parla davvero di me in Messico né di quanto fosse stonata la colonna sonora emotiva in mezzo a un mare di surfisti felici. Non parla nemmeno solo di Mario, per quanto il buon idraulico baffuto abbia fatto più per il mio equilibrio mentale di molti manuali di auto aiuto.
Parla di un’idea semplice, che continuiamo a sottovalutare: i videogiochi, quando sono fatti con cura e intelligenza, possono diventare luoghi. Rifugi. Stanze sicure in cui respirare quando fuori l’aria si fa troppo pesante.
Lo studio tedesco ha provato a dimostrarlo con dati e tabelle; io l’ho scoperto nel modo più disordinato e umano possibile, ritrovandomi in una stanza a Puerto Escondido con la testa piena di pensieri e un Mario-gatto che mi restituiva un pezzo di serenità alla volta.
E forse è proprio questo il potere dei videogiochi: non quello di salvarci — per quello servono cambiamenti reali, tempo, cura — ma quello di accompagnarci mentre proviamo a salvarci da soli. Di ricordarci che siamo ancora capaci di stupirci, di imparare, di ripartire da zero senza vergogna. Di offrirci un livello ben progettato anche quando la nostra vita sembra tutto fuorché tale.
Per questo Super Mario 3D World, ormai, non è solo uno dei miei giochi preferiti: è un promemoria gentile che porto con me. Che nei momenti in cui tutto sembra troppo, a volte basta solo premere “Start”.
Collezionismo e Merchandise
L’arte di Cuphead alla MGWCMX 2025: dietro le quinte dell’Artbook Tomadachi Press
Alla Milan Games Week 2025 Dario Moccia e lo staff di Tomodachi Press presente hanno presentato l’Official Artbook di Cuphead: un viaggio tra arte e carte collezionabili
Pubblicato
6 giorni agoil
9 Dicembre 2025Da
Daniele
La Milan Games Week 2025 si è confermata ancora una volta come uno degli appuntamenti più importanti per il mondo dei videogiochi, della cultura pop e dell’intrattenimento digitale. Tra anteprime, ospiti internazionali, tornei esport e novità hardware, uno degli eventi più intensi e applauditi si è svolto al Sullivan Stage Powered by Game Life, dove è andato in scena il panel dedicato a Cuphead – Out of the Cards, l’Official Artbook che celebra il celebre videogioco attraverso l’arte di decine di artisti.
Un incontro attesissimo, che ha richiamato non solo i fan del titolo di Studio MDHR, ma anche collezionisti, illustratori, appassionati di street art, fumetti, animazione e cultura nerd a 360 gradi. Protagonista sul palco parte del team di Tomodachi Press: Dario Moccia, Davide Masella, Plot Jacobs, Nico Ray e numerosi altri artisti che hanno contribuito a rendere questo progetto una vera e propria opera corale.

Un progetto nato quasi per necessità
Durante il panel è stato raccontato come l’artbook sia nato in modo del tutto naturale. Nel corso della produzione del set di carte collezionabili ispirate a Cuphead, il team si è trovato con una quantità enorme di materiale di “scarto”: bozze preparatorie, versioni alternative, prove di colore, reinterpretazioni e concept che non avevano trovato spazio nel prodotto finale.
Da qui l’idea: racchiudere tutto in un volume che raccontasse il dietro le quinte dell’intero progetto. Non un semplice artbook celebrativo, ma una vera e propria cronaca visiva del processo creativo. Il risultato è un volume imponente da 416 pagine, diventato immediatamente un oggetto da collezione. L’edizione deluxe, arricchita da cofanetto e dettagli esclusivi, è andata rapidamente sold out, segno di un entusiasmo straordinario da parte del pubblico.
A impreziosire ulteriormente l’opera è la prefazione dei fratelli Moldenhauer, i creatori originali di Cuphead, che hanno voluto personalmente commentare il progetto, riconoscendone il valore artistico e l’approccio rispettoso verso l’opera originale.
La visione di Dario Moccia e la direzione artistica

Il cuore creativo dell’intero progetto è stato Dario Moccia, che ha curato la direzione artistica in ogni sua fase. Il suo lavoro non si è limitato al semplice coordinamento: ha selezionato gli artisti, assegnato soggetti, definito stili e guidato ogni singolo artwork.
Il metodo di lavoro è stato chiaro fin dall’inizio:
“In base al soggetto sceglievo prima lo stile, poi l’artista”.
Una scelta che ha permesso di ottenere un set estremamente vario sul piano estetico, ma allo stesso tempo coerente con l’anima di Cuphead. Ogni carta diventa così un’opera unica, che reinterpreta personaggi, boss e ambientazioni attraverso tecniche differenti: illustrazione tradizionale, pittura digitale, graffiti, scultura, 3D, murales e animazione.
Dal murales alla carta: l’arte che si fa collezione
Uno degli episodi più affascinanti raccontati sul palco riguarda la trasformazione di un murale reale, dipinto in Valcamonica, in una carta collezionabile. Un’opera gigantesca, alta circa 4 metri e larga 8, realizzata su un muro vero, poi ridotta alle dimensioni di una carta da gioco.
All’interno dell’artbook sono documentate tutte le fasi del lavoro:
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sopralluoghi
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realizzazione dal vivo con l’uso della gru
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fotografie di produzione
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correzioni in tempo reale
Non solo: sono state inserite persino le coordinate GPS per permettere ai fan di andare a vedere l’opera dal vivo. Un esempio perfetto di come street art e collezionismo possano fondersi in un unico progetto creativo.
Un’attenzione maniacale per ogni dettaglio

Durante la produzione del set, anche gli elementi più piccoli hanno richiesto un lavoro enorme. Emblematico il caso delle icone di gioco: inizialmente erano state inserite quelle originali del titolo, ma a produzione quasi ultimata è arrivata la richiesta di rielaborarle completamente.
Questo ha portato alla realizzazione di oltre 160 nuove icone disegnate da zero, ciascuna reinterpretata in modo artistico. Un lavoro titanico, che ha richiesto settimane di produzioni serrate, bozze, revisioni e rifiniture. Tutto questo processo è oggi documentato nelle ultime pagine dell’artbook, rendendo il volume una vera miniera di contenuti per appassionati e addetti ai lavori.
Il sogno degli artisti: lavorare su Cuphead

Molti artisti presenti sul palco hanno raccontato quanto questo progetto sia stato, per loro, la realizzazione di un sogno coltivato fin dall’infanzia. Alcuni provengono dal mondo delle carte collezionabili, cresciuti tra Pokémon, Yu-Gi-Oh! e Magic. Altri arrivano dalla street art, dall’illustrazione o dal 3D.
Per tutti, lavorare su un brand come Cuphead ha rappresentato una sfida enorme:
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da un lato la libertà creativa
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dall’altro il rispetto del canone originale
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in mezzo, la necessità di adattare ogni opera alle regole tecniche della stampa e della carta
Il risultato finale dimostra che questo equilibrio è stato raggiunto pienamente.
Il rapporto con i collezionisti
Uno degli aspetti più emozionanti emersi dal panel è stato il rapporto diretto con i fan e i collezionisti. Molti hanno raccontato di:
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aver iniziato a collezionare proprio grazie a Cuphead – Out of the Cards
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aver scoperto il gioco solo dopo aver trovato una carta
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aver completato interi set, cercando varianti numerate, sketch e alterazioni
All’estero, in particolare, il successo è stato sorprendente: centinaia di box venduti online in pochissimo tempo, anche in Paesi dove la comunicazione italiana non era arrivata direttamente. Segno che la forza del progetto è stata soprattutto artistica e non solo legata al brand.
Quando il videogioco diventa arte
Cuphead – Out of the Cards non è solo un artbook e non è solo un set di carte. È un progetto che dimostra come il videogioco possa diventare:
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opera d’arte visiva
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oggetto da collezione
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racconto creativo
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esperienza culturale condivisa
La consacrazione alla Milan Games Week 2025 rappresenta il riconoscimento definitivo di questo percorso. Un esempio concreto di come passione, talento e lavoro di squadra possano trasformare un videogioco in una piattaforma artistica capace di unire mondi diversi.
Videogiochi
Checkpoint: Le notizie dal mondo dei videogiochi dal 1 al 7 Dicembre 2025
Su Checkpoint tutte le principali notizie videoludiche dal 1 al 7 dicembre 2025: Metroid Prime 4, Horses, Netflix e Warner Bros, Resident Evil Requiem
Pubblicato
7 giorni agoil
8 Dicembre 2025Da
Daniele
La prima settimana di dicembre 2025 conferma ancora una volta quanto il mondo dei videogiochi resti in continuo fermento. Dalle scelte creative di Nintendo alle tensioni legali tra Sony e Tencent, passando per l’espansione sempre più aggressiva di Netflix nel mercato dell’intrattenimento globale, questa settimana ha offerto spunti di riflessione importanti anche sul futuro dell’industria.
Ecco tutte le notizie più rilevanti dal 1 al 7 dicembre 2025. Ovviamente solo su Checkpoint!
Metroid Prime 4: tra lodi, polemiche e scelte divisive
Dopo anni di silenzio, rinvii e teaser, Metroid Prime 4 è finalmente arrivato. L’attesa dei fan era enorme e le aspettative altissime. L’uscita del titolo ha però diviso pubblico e critica.
Da un lato, molti giocatori lodano il level design delle aree principali, che riesce a richiamare con forza lo spirito dell’originale Metroid Prime su GameCube. Le sezioni di combattimento risultano fluide, dinamiche e ben strutturate, regalando soddisfazioni soprattutto ai veterani della saga.
Dall’altro lato, numerose scelte di design hanno acceso un acceso dibattito. I dialoghi di alcuni personaggi risultano troppo lunghi e poco incisivi, rallentando il ritmo dell’avventura. A far discutere ancora di più sono però le nuove sezioni open world in moto, che spezzano l’equilibrio classico della serie.
Il gioco alterna così due anime molto diverse:
-
da una parte, fasi di gunplay serrate e appaganti;
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dall’altra, momenti più lenti, con ampie zone desertiche da attraversare in sella alla moto.
Secondo diversi analisti, Nintendo avrebbe spinto lo sviluppo verso un’impostazione più vicina a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, nel tentativo di allargare il pubblico. Tuttavia, queste aree risultano spesso ampie ma povere di attività, con poche missioni secondarie, oggetti rari da raccogliere e una sensazione generale di dispersione.

A rendere il tutto ancora più controverso interviene la gestione della colonna sonora. Nintendo consente di attivare la musica di sottofondo durante le sezioni in moto solo tramite un amiibo dedicato da circa 20 euro. Questa scelta ha diviso la community.
Molti la considerano una forma di monetizzazione aggressiva. L’azienda, invece, difende la decisione parlando di contenuto opzionale. In ogni caso, Metroid Prime 4 resta uno dei titoli più discussi e analizzati del momento.
Denuncia Sony vs Tencent: Stealth Frontiers finisce sotto osservazione

La disputa legale tra Sony e Tencent entra in una fase ancora più delicata. Tencent ha deciso di bloccare la promozione del suo MMORPG Stealth Frontiers, accusato di prendere forti ispirazioni dal mondo di Horizon.
Tencent aveva annunciato il gioco nell’estate del 2023 con l’obiettivo di creare un grande open world online ambientato in uno scenario post-apocalittico. Lo sviluppo prosegue regolarmente, ma lo stop alla promozione segnala la serietà delle contestazioni sollevate da Sony.
Il blocco non rappresenta solo una mossa cautelativa. Mostra anche quanto il tema della proprietà intellettuale sia diventato centrale nel mercato globale. Se la disputa dovesse aggravarsi, le conseguenze potrebbero influenzare sia il futuro del gioco sia i rapporti tra i due colossi.
The Gods Slayer: l’action GDR che arriva dalla Cina

Patia Games ha pubblicato il primo vero video gameplay di The Gods Slayer, il suo nuovo action GDR open world. Il titolo immerge i giocatori in una metropoli steampunk di ispirazione orientale, tra architetture futuristiche e atmosfere cupe.
Il gioco punta su:
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combattimenti ad alta velocità,
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esplorazione verticale,
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una narrazione che promette colpi di scena.
In origine Patia Games lo aveva annunciato come esclusiva PlayStation 5. Ora arriva la conferma anche per PC e Xbox, segnale di una strategia multipiattaforma più ampia. Manca ancora una data d’uscita ufficiale, ma l’interesse del pubblico cresce rapidamente.
Resident Evil Requiem: cresce l’attesa per il nuovo capitolo

Capcom ha fissato l’uscita di Resident Evil Requiem per il 27 febbraio 2026 su PC, PS5 e Xbox Series X. In questi giorni è apparso un breve filmato gameplay che mostra una sezione di combattimento particolarmente intensa.
Secondo alcune indiscrezioni, il video proverrebbe dalla versione censurata giapponese, una pratica storica per la saga. Nonostante questo, i fan hanno già iniziato ad analizzare ogni singolo fotogramma.
Ora l’attenzione si sposta su una possibile demo pre-lancio, che potrebbe arrivare nei prossimi mesi. L’attesa resta altissima e il titolo si prepara a diventare uno degli survival horror più importanti del 2026.
Horses di Santa Ragione: la censura su Steam non si ferma

Valve ha rifiutato in via definitiva la pubblicazione di Horses, il gioco horror-surrealista sviluppato dallo studio italiano Santa Ragione. Steam giustifica la decisione con una build del 2023 giudicata non conforme alle linee guida.
Nonostante le modifiche effettuate dagli sviluppatori, la piattaforma ha mantenuto il blocco. Santa Ragione ha quindi deciso di distribuire il gioco su GOG al prezzo di 4,99 euro.
La risposta del pubblico è stata immediata: Horses ha raggiunto in pochissimo tempo il primo posto nelle vendite. Il caso ha riacceso il dibattito su:
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censura preventiva,
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potere delle piattaforme digitali,
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libertà creativa degli sviluppatori indipendenti.
Netflix acquisisce Warner Bros: nasce un colosso dell’intrattenimento

La notizia più clamorosa della settimana riguarda Netflix, che ha completato l’acquisizione di Warner Bros Discovery per 82,7 miliardi di dollari. L’operazione coinvolge cinema, serie TV e anche importanti studi di sviluppo videoludico.
Tra i team inclusi figurano:
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Rocksteady
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TT Games
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Avalanche
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Realms Studios
Netflix si trasforma così in un vero gigante cross-mediale, capace di controllare film, serie e videogiochi. Nei prossimi anni potremmo assistere a una sempre maggiore integrazione tra i vari media, con franchise capaci di muoversi tra piattaforme diverse con continuità.
La settimana dal 1 al 7 dicembre 2025 dimostra ancora una volta quanto l’industria videoludica resti un ecosistema complesso, dinamico e in continua trasformazione. Tra produzioni controverse, scontri legali internazionali e operazioni finanziarie miliardarie, il settore vive una fase di cambiamento profondo.
Il 2026 si avvicina con promesse importanti. Noi continueremo a raccontarle su Checkpoint, passo dopo passo.
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