Approfondimenti e Curiosità
Essenza Ludica: Quando i pugni pensavano: l’ultimo respiro della scuola Technos
Su essenza ludica si parla di filosofie contrapposte di Technos e Capcom nello sviluppare picchiaduro a scorrimento, quale ha prevalso e come
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Mentre Final Fight (1989) stava riscrivendo le regole del picchiaduro a scorrimento con la grazia di un tir in discesa libera, arrivò The Combatribes. Un titolo Technos del 1990 che, a prima vista, sembrava solo un cugino pompato di Double Dragon, ma che in realtà cercava di spingersi più in là: più mosse, più ritmo, più tecnica. Un beat ‘em up che voleva che tu pensassi mentre picchiavi, non solo che pestassi pulsanti a tempo di synth.
Eppure, in quel periodo cruciale per il genere, la filosofia Technos — fatta di precisione, timing e brutalità ragionata — si trovò a fronteggiare la scuola Capcom, quella del “pugno largo” e della spettacolarità accessibile. Indovinate chi ha vinto?
The Combatribes resta così una specie di fossile combattivo: il canto del cigno di una visione più complessa e meno accomodante del picchiaduro, sepolta sotto una valanga di sprite enormi e urla di “Haggar Smash!“.
La genesi: quando Technos inventò tutto
Quando si parla di Technos Japan, si parla di una casa che ha letteralmente inventato il picchiaduro a scorrimento. Prima di loro, menarsi in un videogioco era una questione da schermata fissa: un ring, due ometti, zero spazio per la fantasia. Oppure c’erano titoli come Kung-Fu Master o Vigilante, dove l’azione si riduceva a un balletto di riflessi: due direzioni, due tasti, e via a distribuire calci come un metronomo. Erano giochi di ritmo, non di spazio. L’eroe avanzava in linea retta come su un tapis roulant, mentre i nemici arrivavano a turno per prendere la loro dose di dolore programmato.

Poi arrivò Double Dragon (1987), e il mondo vide due fratelli — Billy e Jimmy Lee — menare delinquenti a ripetizione lungo strade, fabbriche e ponti, con una naturalezza che oggi diamo per scontata. Quella sensazione di “cammino e distruzione” era nuova, liberatoria, quasi cinematografica.
Technos aveva preso la struttura rudimentale di Renegade (già loro, nel 1986) e l’aveva raffinata: spazio tridimensionale su un piano bidimensionale, prese, calci, armi improvvisate e soprattutto una fisica che dava peso ai colpi. Ogni pugno in Double Dragon aveva un piccolo ritardo, una “messa in scena” che restituiva impatto. Non era solo un gioco di riflessi: era un gioco di ritmo e posizionamento.

Quel sistema, apparentemente grezzo, nascondeva un’anima quasi da arti marziali digitali. Non bastava premere pulsanti: bisognava leggere il nemico, trovare l’apertura, e punire. È il motivo per cui Double Dragon ha avuto un tale impatto: non solo perché era cooperativo, non solo perché suonava come un film di strada anni ’80, ma perché ti faceva sentire il peso di ogni scontro, come se ogni colpo fosse meritato.
Technos, con quel titolo, aveva tracciato una via: un beat ‘em up come danza brutale, dove la tecnica contava più della potenza. E da lì in poi avrebbe continuato a credere che il picchiaduro dovesse essere un’arte marziale, non un’esplosione di pixel — una filosofia che culminerà (e morirà) proprio con The Combatribes.
Perché già al momento dell’uscita, quella filosofia si sarebbe trovata a fare i conti con una nuova scuola, più barocca e immediata — quella Capcom.
Due scuole, una rissa: Technos contro Capcom
Negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90, il beat ‘em up era il re delle sale giochi, ma non tutti i regni si governavano allo stesso modo.
Da una parte c’era Technos Japan, la bottega artigiana del pugno digitale. I loro giochi non volevano farti sentire un supereroe, ma un tizio che sapeva davvero come menare. Il loro beat ‘em up era fatto di timing, distanze, rischi calcolati: ogni colpo aveva una finestra, ogni presa richiedeva un istante di calma nel caos. Non bastava premere, bisognava capire. Quando atterravi un nemico in Double Dragon o lo scaraventavi via in The Combatribes, sentivi che c’era fisica, c’era peso, c’era un pensiero dietro il dolore.

Technos trattava la rissa come una scienza marziale. Pochi fronzoli, zero effetti speciali, tanta sostanza. Era un picchiaduro che ti chiedeva di stare sul pezzo — non di riempire lo schermo di pugni, ma di scegliere quello giusto, nel momento giusto.
Dall’altra parte del ring, Capcom stava preparando il suo spettacolo pirotecnico. Se Technos ti chiedeva disciplina, Capcom ti offriva potenza pura e gratificazione istantanea. Con Final Fight nel 1989, il combattimento smise di essere un esercizio di misura e divenne un carnevale di colpi enormi, suoni fragorosi e personaggi che occupavano mezzo schermo. Niente più calcoli di distanza: bastava avvicinarsi e premere forte — ci pensava il game design a farti sentire onnipotente.

Capcom trasformò la rissa in intrattenimento di massa: Haggar non era un tecnico, era un wrestler-sindaco che risolveva i problemi a suon di piledriver. Tutto era più grande, più rumoroso, più generoso con il giocatore. Ogni input produceva un’esplosione di feedback, ogni nemico volava come in un cartone animato.
Dove Technos chiedeva rispetto per la tecnica, Capcom rispondeva con la democratizzazione del pugno: tutti potevano sentirsi forti, anche senza capire davvero cosa stessero facendo. E il pubblico, manco a dirlo, se ne innamorò.
Il bilanciamento: dio contro mortale
Capcom costruiva i suoi picchiaduro come spettacoli di dominio: tu eri il protagonista indiscusso, e i nemici solo comparse in fila per farsi gonfiare. In Final Fight, affrontare cinque, sei, otto avversari contemporaneamente non era un problema — era il punto. Il bilanciamento era tutto dalla tua parte: colpi larghi, hitbox generose, invincibilità tattica nelle prese. Il giocatore doveva sentirsi invulnerabile nel caos, un’icona che travolge masse di criminali come un’onda di pixel ben animata.
Technos, invece, ragionava in termini opposti: due nemici a schermo erano già un campo di battaglia. In Double Dragon, la gestione dello spazio era vitale — se ti incastravano in mezzo, eri fritto. Le prese avevano tempi precisi, i colpi dovevano essere “sentiti” e alternati con intelligenza. Anche solo girarsi nel momento sbagliato poteva costarti una vita. Ogni scontro era un duello mascherato da rissa, dove l’aggressività cieca veniva punita senza pietà.
Il calcio volante: la cartina di tornasole
Il calcio volante è praticamente la dimostrazione perfetta del contrasto tra le due scuole.
In Final Fight, è la mossa della sicurezza: un’area d’impatto enorme, invincibilità durante l’animazione e una capacità distruttiva di massa. Lo usi, atterri cinque teppisti in un colpo solo e, al massimo, ti sposti di mezzo passo per ricominciare. È un gesto di potere gratuito, una coreografia pensata per farti sentire in controllo assoluto del caos. Non importa la precisione: basta pigiare al momento giusto, e lo spettacolo è servito.
In Double Dragon, invece, il calcio volante è una mossa di sopravvivenza, non di dominio. La finestra d’impatto è minuscola, il tempismo chirurgico: se sbagli di un pixel o di un frame, resti scoperto e vieni punito senza pietà. È una manovra difensiva, più che offensiva, utile per allontanare un nemico troppo vicino o guadagnare spazio, non per fare pulizia. È la mossa del giocatore cauto, non del guerriero invincibile.
Due calci identici sulla carta, ma con filosofie diametralmente opposte: in Capcom, potere senza rischio; in Technos, rischio come essenza del potere.
Arsenale vs semplicità
Technos aveva un approccio quasi ossessivo al ventaglio di possibilità del giocatore. In Double Dragon ogni input, ogni combinazione di direzione e tasto, dava luogo a qualcosa di diverso: gomitate, prese, calci alti, calci bassi, proiezioni, colpi di rimbalzo. Non tutto era indispensabile — anzi, molte mosse erano situazionali o difficili da eseguire — ma la sensazione era quella di avere un arsenale complesso da padroneggiare, non un set preconfezionato da spammare.

Capcom fece l’opposto. In Final Fight le mosse sono pochissime, ma funzionano sempre: attacco base, salto-attacco, presa automatica. Tutto calibrato per scorrere fluido e spettacolare, senza chiedere troppo al giocatore. È il design della semplificazione intelligente: taglia il superfluo, amplifica la soddisfazione immediata. Dove Technos cercava profondità, Capcom puntava alla coerenza.
E poi arrivò The Combatribes, che provò a spingersi oltre, introducendo perfino le mosse a terra — una novità assoluta per l’epoca. Non solo potevi finire un avversario già sdraiato, ma potevi farlo in modi diversi: pugni, calci, o persino il celebre giant swing, una presa circolare che trasformava il nemico in un’arma contundente vivente. Ed era più di una trovata estetica: in mezzo a più avversari, quella mossa diventava una vera strategia di crowd control.
Technos voleva darti strumenti, non scorciatoie. E The Combatribes ne è la dimostrazione estrema: un gioco che ti metteva in mano un arsenale tecnico potentissimo, ma solo se avevi la pazienza di capirlo.
Le prese: automatismo contro conquista
Le prese sono forse il punto più eloquente di tutto il discorso — lì si vede proprio il diverso DNA delle due scuole.
In casa Capcom, la presa è automatica: ti avvicini al nemico e zac, lo afferri. Non serve tempismo, non serve preparazione. È una scorciatoia elegante che semplifica il flusso del combattimento. Peccato che poi anche i boss abbiano prese, e lì inizia la farsa: due sprite che si abbracciano nel caos, e tu non hai idea di chi stia sollevando chi finché non voli via come un sacco di carne malmenato. È il regno del “vediamo chi il gioco decide di favorire”. Final Fight è pieno di questi abbracci tossici — momenti in cui il sistema sembra lanciare una monetina per decidere chi finirà spalmato sull’asfalto.

Technos, invece, trattava la presa come una ricompensa, non un automatismo. In Double Dragon, prima di poter afferrare un nemico dovevi “domarlo”: due o tre colpi ben assestati per spezzargli la guardia, poi — e solo allora — potevi agguantarlo per un knee smash o una proiezione degna di Bruce Lee. Era un linguaggio chiaro: la presa arrivava come conseguenza logica di un vantaggio costruito, non come shortcut. Non era un’esplosione casuale di animazioni, ma un cambio di ritmo conquistato con fatica.
Capcom ti faceva sentire potente subito. Technos ti chiedeva di meritarti la potenza.
Controlli: combo automatiche contro pesantezza ragionata
Un’altra differenza sostanziale, e spesso sottovalutata, è proprio nei controlli — il modo in cui le due scuole interpretavano la fisicità del combattimento.
Capcom, con Final Fight, semplifica tutto a un solo tasto di attacco. Basta martellarlo, e il personaggio sforna automaticamente una combo completa: una sequenza di pugni e calci che termina quasi sempre con un colpo finale, spettacolare e ineluttabile. Il nemico, una volta incastrato nella combo, non può più reagire: è un sacco da boxe animato che subisce la coreografia fino alla fine. È fluido, è appagante, è perfettamente ritmato per la monetina da sala giochi — ma toglie al giocatore qualsiasi finezza. Tutto avviene “da solo”, tu devi solo restare nel flusso.
Technos seguiva la filosofia opposta. Più tasti, più variabili, più margine d’errore. I colpi erano lenti, pesanti, con un senso di inerzia quasi fisico: ogni pugno sembrava scaturire da muscoli e ossa, non da script. Non c’era una combo automatica, ma una sequenza da costruire col ritmo giusto. Saltare, colpire, afferrare: tutto richiedeva intenzione. E quella lentezza apparente era il prezzo della credibilità. Il combattimento non era una danza, ma un duello.
Capcom ti permetteva di “entrare in trance da pestaggio”, mentre Technos ti costringeva a pensare tra un colpo e l’altro. Due filosofie, due esperienze: una fluida come un film d’azione, l’altra ruvida come una rissa vera.
L’illusione del potere (e il portafogli vuoto)

Attenzione però: tutto questo discorso sulla “facilità” Capcom rischia di essere fuorviante. Perché sì, Final Fight e soci ti fanno sentire una divinità del ring… ma una divinità di cristallo. Il tuo personaggio è devastante, capace di stendere cinque nemici in un respiro, ma anche fragilissimo: bastano pochi colpi ben piazzati, una granata o un abbraccio di troppo, e sei di nuovo con la mano sul portafogli pronto a inserire un’altra moneta.
Capcom ti illude di dominare la folla, ma sotto quella patina di potenza c’è un design spietato, mangiasoldi puro. Ogni gruppo di nemici è pensato per metterti in trappola, ogni boss ha pattern che forzano l’errore. E il fatto che il tuo alter ego sia fortissimo amplifica la frustrazione: più grande è il potere, più bruciante è la caduta.
Certo, poi ci sarebbero da discutere i “trucchetti da baraccone” — i nemici che appaiono alle spalle, i frame d’invulnerabilità che non lo sono, le hitbox sospette — ma quella è un’altra storia. E forse anche un altro gettone.
Capcom costruiva fantasie di potenza, Technos esercizi di sopravvivenza. Dove la prima ti spingeva a entrare nel mucchio con fiducia cieca, la seconda ti educava alla prudenza, alla lettura del campo, all’arte dell’adattamento. E forse è per questo che oggi ricordiamo Final Fight come un’icona immediata, ma Double Dragon — e più tardi The Combatribes — restano nei ricordi di chi cercava nel picchiaduro una sfida, non solo uno sfogo.
The Combatribes: il canto del cigno

The Combatribes è l’ultimo ruggito della scuola Technos, la sua dichiarazione d’intenti definitiva prima di essere inghiottita dall’ondata Capcom. Un gioco che prende tutto ciò che la casa aveva costruito negli anni — da Renegade a Double Dragon — e lo porta all’estremo, fino a trasformarlo in una sorta di manuale di rissa urbana interattivo. È, senza mezzi termini, la summa della filosofia Technos, e a mio avviso uno dei sistemi di combattimento più completi e convincenti mai creati per un picchiaduro a scorrimento.
Qui le mosse non sono decorazioni: sono strumenti, ognuna con un suo peso, un suo ritmo, un suo momento ideale. Calci, pugni, prese, proiezioni, schivate… e poi il vero colpo di genio: i colpi a terra. Una rivoluzione silenziosa. Per la prima volta potevi continuare a menare un avversario già a terra, con varianti brutali che rendevano il combattimento più sporco e realistico. Un linguaggio da strada, non da sala giochi patinata.
E naturalmente c’è lui, il giant swing: l’avversario afferrato per i piedi e fatto roteare come un martello umano, devastante contro gruppi interi. Una mossa che non solo è iconica, ma risolve uno dei problemi storici di Technos — la gestione dei nemici multipli — dando finalmente al giocatore un mezzo tecnico per emergere dal caos senza tradire l’identità del sistema.
The Combatribes è sporco, feroce, senza compromessi. Un gioco che non punta all’eleganza né all’accessibilità, ma alla sensazione pura del combattimento. È il punto più alto — e insieme il limite invalicabile — di una filosofia che chiedeva al giocatore attenzione, precisione, controllo.
Eppure, ed è qui che il paradosso brucia di più, The Combatribes è anche un gioco profondamente imperfetto. Un diamante grezzo… senza la parte “diamante”. Le idee sono brillanti, il sistema di combattimento è un colosso tecnico, ma tutto il resto sembra uscito da una demo interna, uno scheletro di ciò che avrebbe potuto essere.
Gli stage sono pochissimi e brevissimi, tanto da farti pensare che qualcuno, in fase di sviluppo, abbia perso metà del progetto dietro al cabinato. Li inizi, li attraversi, ed è già finita: la progressione non decolla mai, non c’è crescita, non c’è ritmo. Sembra quasi che il combat system, enorme e muscoloso, sia stato incollato sopra un gioco che non aveva lo spazio per sfruttarlo davvero.
Le boss fight poi sono il manifesto dell’ironia tragica di Technos: design visivo fantastico — ogni boss ha personalità, spicca, si ricorda — ma dinamiche scadenti, spesso caotiche o mal calibrate. Molti scontri finiscono per ridursi a routine sporche, pattern inadatti al sistema tecnico che il gioco prova a esaltare. Il potenziale c’è, si vede, urla… ma resta intrappolato in un’esecuzione frettolosa.
Il risultato è un titolo che sembra un prototipo, un concept potentissimo che avrebbe avuto bisogno di altri sei mesi, forse un anno, per diventare il capolavoro che prometteva. Un picchiaduro che mostra quanto lontano potesse spingersi la filosofia Technos, ma anche quanto poco tempo le restasse per perfezionarsi.
Un canto del cigno orgoglioso, e destinato a rimanere un capolinea.
E alla fine, chi è rimasto in piedi?
The Combatribes resta quindi la testimonianza più chiara di una verità scomoda: la via Technos, quella tecnica, ragionata, dura e un po’ ostinata, si è spinta al suo limite proprio mentre il mercato stava correndo dall’altra parte. Mentre Technos costruiva sistemi profondi, pieni di variabili, con mosse situazionali e scelte da ponderare, Capcom sfondava la porta principale con la sua filosofia dell’impatto immediato: combo automatiche, hitbox generose, ritmo forsennato e un’estetica che urlava “gioca ancora”.

E il pubblico, inutile girarci intorno, ha scelto.
Non la complessità. Non la tecnica. Non la rissa sporca che devi imparare col sudore.
Ha scelto la potenza istantanea, la chiarezza, la leggibilità, la sensazione di essere un titano nel caos. La scuola Capcom è diventata lo standard, il riferimento, il DNA dominante del genere. Oggi ci sono centinaia di cloni di Final Fight più o meno riusciti, tanto da essere venuti a noia anche a chi, come me, mangia pane e picchiaduro a colazione. Mentre Technos, con The Combatribes, ha raggiunto insieme il suo apice e il suo capolinea: un sistema di combattimento straordinario intrappolato in un gioco incompleto, ultimo grido di un modo di pensare il beat ‘em up che non avrebbe più trovato spazio.
Il canto del cigno Technos non è solo quello di The Combatribes: è quello di una filosofia che puntava sulla maestria, non sulla spettacolarità. Una filosofia bellissima, ma fragile — troppo fragile per sopravvivere alla nuova era dei pugni larghi e delle masse di nemici da spazzare via.

Prima di sparire definitivamente dai radar, Technos fece un ultimo tentativo disperato: Super Double Dragon, esclusiva SNES e manifesto estremo della sua filosofia. Più tecnico, più lento, più stratificato, più tutto. Con parate manuali, caricamenti di energia, prese avanzate… un vero trattato di arti marziali travestito da picchiaduro.
Peccato che fosse anche meno divertente, terribilmente incompleto e sviluppato di corsa: mancava persino il boss finale, come se qualcuno avesse staccato la spina a metà turno dicendo “basta, non ce la faccio più”. Il suo insuccesso fu l’ultimo chiodo sulla bara di quel modo di intendere il combattimento: la prova definitiva che il pubblico non cercava complessità, ma impatto.
E così, mentre Technos insegnava al giocatore a respirare, contare i frame e meditare sull’angolo perfetto per una gomitata, Capcom arrivava, spalancava la porta e chiedeva: “Scusa, vuoi divertirti?”. Il mercato rispose “Sì” e non si voltò più indietro.
Oggi The Combatribes, Super Double Dragon e tutta la scuola Technos restano come quei vecchi maestri di arti marziali nei film: austeri, pieni di saggezza, potentissimi… e puntualmente presi a calci dall’eroe giovane e tamarro che vende più biglietti al botteghino.
Ma ehi: tra noi nostalgici, la cintura nera del beat ‘em up tecnico la porteranno sempre loro. Capcom ha vinto la guerra del pubblico, certo — ma Technos ha vinto quella del cuore (e delle gomitate ben piazzate).
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Su Essenza Ludica si parla di Super Mario 3D World e benessere mentale: una storia vera su come un videogioco può offrire conforto.
Pubblicato
3 ore agoil
14 Dicembre 2025
Super Mario 3D World è uno di quei titoli che sembravano destinati a rimanere intrappolati nel purgatorio dorato del Wii U: amato da chi l’aveva giocato, ignorato dal resto del mondo perché — diciamolo — la console Nintendo meno capita dell’ultimo ventennio non era esattamente il posto ideale per un capolavoro.
Quando uscì nel 2013, il panorama videoludico stava cambiando pelle: PS4 e Xbox One inauguravano l’era dell'”open world a tutti i costi”, i tripla A lucidavano muscoli e shader, e il povero Wii U arrancava come un Toad senza power-up. In questo clima da transizione un po’ schizofrenica, Nintendo tirò fuori un platform isometrico lucidissimo, erede di 3D Land, che preferiva l’invenzione geometrica al gigantismo a mappa aperta. Un gioco che ti metteva davanti livelli cesellati con precisione ossessiva, una cooperativa irresistibile e quell’estetica da laboratorio Nintendo in stato di grazia.
Sul piano critico fu un trionfo quasi unanime. Sul piano commerciale… fece quello che poteva. Con circa sei milioni di copie vendute, 3D World diventò uno dei titoli più popolari del Wii U, ma il problema era la console stessa: un palco mezzo vuoto, incapace di dare al gioco l’esposizione che meritava. Per un Mario tridimensionale, un potenziale da 15-20 milioni buttato su una base installata di 13 scarsi era una missione impossibile. Non era il gioco ad aver sbagliato qualcosa; era il pubblico potenziale rimasto fuori dalla porta.

Quando Nintendo ha deciso di dargli una seconda vita su Switch, con l’edizione del 2021 accompagnata dall’espansione Bowser’s Fury, il mondo ha finalmente fatto la conoscenza che avrebbe dovuto fare anni prima. Le recensioni internazionali — entusiaste fino all’imbarazzo — parlavano di “trionfo”, “gioiello di precisione”, “laboratorio di creatività in formato platform”. Insomma: non era l’ennesimo Mario, era il Mario che rischiava di non essere visto.
Un design che ti tiene per mano (nel senso buono)
La struttura di Super Mario 3D World è la prova vivente che Nintendo, quando vuole, riesce a trasformare la geometria in intrattenimento puro. Niente open world dispersivi, niente hub contemplativi: qui si torna a un’impostazione a mondi e livelli, old school ma filtrata attraverso la lente tridimensionale estremamente ordinata inaugurata da 3D Land.

Ogni stage è un’idea: compatta, leggibile, autoconclusiva, progettata per durare il tempo giusto prima di sparire e lasciare spazio alla successiva. È un design “a vignette”, dove il ritmo è dato dal continuo susseguirsi di concept: un livello sul vento, uno sulle piattaforme trasparenti, uno sui doppelgänger, uno sul ritmo musicale… un carosello che ti impedisce di annoiarti perfino se ci provi.
La mappa, con la sua finta libertà di movimento, funziona da buffer respiratorio: cammini, giochi a calcio con Goomba innocenti, fai due passi in un teatrino interattivo e poi entri nel prossimo micro-mondo di follia controllata. È un platform che non ti chiede mai di sposare un’idea per ore e ore; te la presenta, te la fa assaggiare, e la sostituisce con qualcos’altro prima che il tuo entusiasmo cali. Una filosofia quasi da degustazione: piccole porzioni di creatività servite una dietro l’altra, senza appesantire mai.
La cooperativa (ovvero: come rovinare le amicizie con stile)
La cooperativa di Super Mario 3D World è quel tipo di genialata Nintendo che parte come un invito all’armonia familiare e finisce, di solito, come un test di sopravvivenza delle relazioni. Fino a quattro giocatori in contemporanea, ognuno con il proprio peso specifico sul gameplay: il salto più alto di Luigi, la velocità di Toad, la grazia acrobatica di Peach, e Mario… be’, Mario che fa il Mario.

Il livello design, già calibrato al millimetro in solitaria, si trasforma in un caos organizzato quando entra in scena la compagnia: piattaforme che diventano ring, power-up contesi come fosse l’ultimo panettone a dicembre, e quella danza continua tra collaborazione e sabotaggio involontario. È una cooperativa pensata non solo per “aggiungere gente a schermo”, ma per riscrivere il tono della partita: ogni livello cambia ritmo, difficoltà e persino comicità a seconda di quante mani — e quante intenzioni — sono coinvolte.
Il miracolo è che funziona: anziché rompersi sotto il peso dell’anarchia, il gioco la abbraccia e la trasforma in parte del divertimento. E se capita di buttare giù un amico da una piattaforma stretta… è sempre stato colpa della fisica, ovviamente.
Lo studio tedesco: quando Mario smette di essere solo un gioco
Qualche anno fa, un team di ricercatori tedeschi ha fatto ciò che molti giocatori sospettavano da tempo: ha messo Mario in un laboratorio. Non per misurargli il consumo di funghi, ma per capire se un platform ben progettato potesse avere un impatto reale sull’umore.
Il risultato? Un gruppo di partecipanti con sintomi depressivi, dopo alcune sessioni di Super Mario Odyssey, mostrava miglioramenti comparabili a quelli ottenuti con trattamenti più tradizionali, soprattutto in termini di motivazione e benessere percepito. Gli studiosi parlarono di “stimolazione cognitiva positiva” e “senso di progressione chiaro e gratificante”.
Tradotto dal linguaggio accademico: il cervello, quando gli dai qualcosa di brillante, strutturato e gentile con la dopamina, risponde. E mentre il mondo scientifico si interrogava su come un idraulico baffuto potesse avere effetti terapeutici misurabili, molti giocatori alzarono le spalle: “Benvenuti, scienziati. Noi lo diciamo dall’86.”
Lo studio:
- Titolo: “Effects of a video game intervention on symptoms, training motivation, and visuo-spatial memory in depression”
- Autori: Moritz Bergmann, Ines Wollbrandt, Lisa Gittel, Eva Halbe, Sarah Mackert, Alexandra Philipsen, Silke Lux
- Pubblicazione: 2023
- Contesto: 46 persone con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) divise in tre gruppi: chi giocava a Super Mario Odyssey su Switch, chi faceva training cognitivo con “CogPack”, e chi seguiva trattamento standard (psicoterapia e/o farmaci)
Risultati principali:
- Dopo 6 settimane, il gruppo Mario mostrava la diminuzione più significativa di sintomi depressivi clinicamente rilevanti
- Motivazione maggiore a continuare il “trattamento” ludico rispetto al gruppo CogPack
- Miglioramenti nei test su memoria visuo-spaziale e funzioni cognitive
Conclusioni dei ricercatori: Un intervento con videogiochi 3D potrebbe aumentare il benessere soggettivo, incrementare la motivazione al training e potenzialmente migliorare alcune funzioni cognitive in soggetti con depressione maggiore — con le dovute cautele sulla dimensione del campione e la necessità di ulteriori ricerche.
Messico, burnout e un idraulico baffuto
A un certo punto ho deciso che questo articolo avrebbe fatto una cosa un po’ fuori dal coro: togliersi il cappello da critico videoludico e infilarsi, per una volta, dentro il personale.
Molti anni fa ho attraversato una fase della vita che definire “pesante” è un eufemismo degno di un comunicato stampa. Un mix di stress lavorativo, responsabilità che si moltiplicavano come Goomba e un paio di casini personali che avrei volentieri parcheggiato in un warp zone lontanissima ha finito per schiacciarmi fino al punto di rottura. Il risultato è stato un burnout vero, profondo, di quelli che ti svuotano e ti spezzano il ritmo interiore.
Il punto è che burnout e depressione, pur non essendo la stessa cosa, sembrano parenti stretti che si scambiano il cappotto all’ingresso. Il burnout nasce in genere da un logoramento prolungato — lavorativo, emotivo, relazionale — che ti consuma poco alla volta, come una batteria che resta sempre in modalità “risparmio energetico” senza mai ricaricarsi davvero. La depressione è una condizione clinica più ampia e complessa, ma i due mondi si sovrappongono spesso: la stanchezza costante, la difficoltà a provare piacere nelle cose, il sentirsi scollegati da sé stessi, la perdita di motivazione e quel pensiero ricorrente che “non ce la farò mai a tornare come prima”.
Il burnout può non arrivare al buio profondo della depressione maggiore, ma ne condivide la modalità: ti annebbia il giudizio, ti toglie il colore dalle giornate, ti fa vivere ogni gesto come un ostacolo in più da superare. E soprattutto — qui sta la trappola — può trasformarsi nella porta d’ingresso della depressione se ignorato o minimizzato.
Ne sono uscito solo cambiando radicalmente stile di vita, prendendo tempo per me, viaggiando e ricucendo le priorità. Ma il burnout, proprio come i boss più ostinati, a volte torna a presentare il conto: non ogni giorno, non sempre allo stesso modo, ma abbastanza da ricordarti che la partita non è mai completamente chiusa.
Puerto Escondido: il paradiso sbagliato
Due anni fa, quel vecchio fantasma ha bussato di nuovo alla porta, e lo ha fatto in un momento che sulla carta avrebbe dovuto essere perfetto.

Ero in Messico, zona Puerto Escondido. Da nomade digitale, abituato a vivere in giro per il mondo, avrei dovuto sentirmi nel mio elemento: amici di vecchia data nei paraggi, clima morbido, onde che sembrano disegnate da uno shader particolarmente romantico.
E invece niente. Il vibe locale, quella miscela di surf, yoga e vita alla giornata, mi scivolava addosso. La zona, ormai super gentrificata, oscillava tra il fasto da cartolina e un’insofferenza sempre più evidente da parte dei local.
A complicare le cose, arrivavo lì in un momento di grande trasformazione personale: avevo appena finito un master, mi muovevo tra progetti importanti, con un senso di scopo che finalmente tornava a pulsare. Ero in modalità “costruire”, non “galleggiare”.
E invece Puerto Escondido pullulava di gente che lavorava una stagione, incassava abbastanza per qualche mese di birrette oceaniche e poi… si vede. Una filosofia perfettamente legittima, quasi invidiabile, ma per me era come osservare un ecosistema che parlava un dialetto emotivo che non conoscevo più.
Io ero lì con la testa piena di obiettivi e visioni di lungo periodo; loro viaggiavano leggeri, con il presente come unico bagaglio a mano. Nessun giudizio: solo un distacco crescente, una sensazione da pesce fuor d’acqua.
Mentre tutti attorno sembravano entrare e uscire dalle feste come NPC perfettamente programmati per il buonumore, io mi sentivo fuori posto. Loro si divertivano con una naturalezza da trailer turistico, surf all’alba e tequila al tramonto; io arrancavo dietro a un’energia che non era la mia.
E poi c’era l’età: avevo appena compiuto 46 anni, quel punto in cui ti aspetti di aver risolto almeno il tutorial della vita, e invece sei ancora lì a premere tasti a caso. In mezzo a ventenni e trentenni fluttuanti tra beach party e volontariato spirituale, ero la figura fuori posto: troppo adulto per fingere leggerezza, troppo stanco per improvvisarla, troppo lucido per ignorare la frattura che si stava aprendo sotto i piedi.
Ed è in quella discrepanza — tra la festa intorno e il silenzio dentro — che il down ha iniziato a premere con tutta la sua forza.
Ritrovare sé stessi, un livello alla volta
Ed è stato proprio lì, in quel miscuglio di solitudine paradossale e rumore di festa, che ho trovato un appiglio inatteso: Super Mario 3D World.
Una sera, dopo l’ennesima giornata passata a sentirmi fuori fase con il mondo, ho acceso la Switch quasi per riflesso. E nel momento in cui il jingle di apertura ha riempito la camera, tutto ha fatto click.

La bellezza di quel gioco, in quella situazione, era la sua capacità di darmi ciò che fuori mancava: una struttura chiara, un obiettivo alla volta, un ritmo comprensibile. Là fuori mi sentivo un quarantenne spaesato, lì dentro ero di nuovo un giocatore con una direzione, un percorso, un micro-scopo chiaro che, in quel momento, valeva più di mille feste perfette.
Super Mario 3D World non mi chiedeva di essere leggero: mi aiutava a ritrovarla, un grammo alla volta.
Una delle cose più sorprendenti di Super Mario 3D World, in quel periodo, è stata la facilità con cui riusciva a riportarmi a uno stato mentale che non provavo da anni: la sensazione di tornare bambino. Non in senso ingenuo o nostalgico da poster motivazionale, ma in quel modo autentico in cui il cervello si concede finalmente di abbassare le difese.
Ogni volta che entravo in un livello, era come infilarmi sotto una coperta che conoscevo benissimo: le musiche leggere, i suoni familiari, quelle animazioni morbide che sembrano uscire da un’epoca della vita in cui tutto era più semplice. Non c’era bisogno di spiegare nulla, non c’era da “performare”: c’era solo da giocare.
Ed è incredibile quanto sollievo possa dare essere cullati da qualcosa che parla la lingua della tua infanzia, quando fuori tutto sembra urlare in un idioma che non capisci più. In Messico, mentre il mondo reale mi chiedeva di sintonizzarmi su frequenze emotive sbagliate per me, Mario mi riportava su una banda che conoscevo perfettamente: quella della meraviglia, del ritmo, del piccolo progresso che scalda il cuore.
Per un’ora al giorno, forse meno, non ero il quarantenne smarrito che cercava il proprio posto tra surfisti e nottambuli: ero il bambino che si stupiva di nuovo di fronte a un livello fatto bene. Ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Perché funziona
La verità è che Super Mario 3D World funziona benissimo come gioco-comfort perché parla la lingua che in quei momenti la mente capisce ancora: regolarità, chiarezza, piccole vittorie.
Il suo design “a vignette” è una benedizione per chi ha la testa impastata: ogni livello è breve, nitido, perfettamente contenuto. Non ti chiede immersioni infinite, non pretende concentrazione maratonetica; ti offre invece micro-percorsi che si chiudono in cinque minuti, ciascuno con un obiettivo limpido e una struttura che restituisce immediatamente un senso di competenza.
È l’opposto dei mondi sconfinati che ti lasciano scegliere “cosa fare” quando tu non sai nemmeno “come stare”: 3D World ti prende per mano, ti propone un puzzle elegante, ti dà un feedback chiaro e ti rimette in pista.

In più, la sua estetica zuccherina — colori pastello, musiche leggere, animazioni buffe — non è solo un vezzo artistico: è un balsamo emotivo. È difficile sentirsi completamente sbagliati quando un Mario-gatto si arrampica su un muro come se stesse facendo ginnastica per bambini.
E poi c’è il ritmo, quel flusso continuo di idee che si alternano senza strafare: abbastanza vario da stimolarti, abbastanza contenuto da non sopraffarti. In un periodo in cui la realtà fuori sembrava un livello progettato male, 3D World era il livello progettato benissimo che mi ricordava che, da qualche parte, le cose potevano ancora avere un senso.
La difficoltà giusta
Ricordavo Super Mario 3D World come un titolo quasi troppo permissivo. La prima volta, ai tempi del Wii U, lo avevo archiviato nella categoria dei “platform gentili”: brillante, sì, ma con una difficoltà che raramente ti mordeva le caviglie.
Ma in Messico quella percezione si è ribaltata del tutto. Quella “facilità” che un tempo mi sembrava un difetto lì è diventata una virtù chirurgica: il livello esatto di permissività che serve quando la tua mente non è in forma e ha bisogno di un’esperienza che non la faccia sentire in fallimento ogni tre minuti.
3D World non ti punisce con cattiveria, non ti schiaccia, non ti espone alla frustrazione: ti incoraggia, ti accarezza l’ego quel tanto che basta a tenerti in movimento. È un gioco che concede spazio all’errore senza trasformarlo in giudizio, che ti permette di sperimentare senza il timore di perdere tutto.
In quel contesto emotivo, la sua difficoltà morbida non era “banale”: era calibrata, precisa, quasi terapeutica. Non avevo bisogno di un platform che mettesse alla prova la mia abilità; avevo bisogno di un platform che mettesse in pausa la mia ansia. E 3D World ci riusciva con la naturalezza con cui altri giochi, ben più ambiziosi, provano a fallire da anni.
Un Mario diverso, stessa medicina
Lo studio tedesco parlava di Super Mario Odyssey, certo: un’avventura gigantesca, scintillante, costruita proprio per stupire e tenerti agganciato livello dopo livello. Ma per me, invece, il gioco che ha fatto scattare qualcosa è stato Super Mario 3D World.
Non ha la grandeur esplorativa di Odyssey, non ha i regni sconfinati né le acrobazie del cappello posseduto: ha qualcosa di più discreto, più umile, più… calibrato. E forse è proprio questo il punto. Mentre i ricercatori misuravano la luce nei volti di chi attraversava New Donk City, io la ritrovavo negli angoli squadrati e gentili dei livelli di 3D World, in quel ritmo perfetto che ti tiene per mano senza tirare né spingere.
È paradossale: lo studio parlava di un altro Mario, ma la sua conclusione — quella scintilla di benessere, di motivazione ritrovata — io l’ho vissuta su un palco diverso, con un protagonista ugualmente baffuto ma con un mood tutto suo.
Ed è anche grazie a questo intreccio imprevisto tra scienza e vita che Super Mario 3D World è diventato per me uno dei migliori giochi di sempre: non solo per come è progettato, ma per come mi ha tenuto insieme quando ne avevo più bisogno.
Alla fine, questa storia non parla davvero di me in Messico né di quanto fosse stonata la colonna sonora emotiva in mezzo a un mare di surfisti felici. Non parla nemmeno solo di Mario, per quanto il buon idraulico baffuto abbia fatto più per il mio equilibrio mentale di molti manuali di auto aiuto.
Parla di un’idea semplice, che continuiamo a sottovalutare: i videogiochi, quando sono fatti con cura e intelligenza, possono diventare luoghi. Rifugi. Stanze sicure in cui respirare quando fuori l’aria si fa troppo pesante.
Lo studio tedesco ha provato a dimostrarlo con dati e tabelle; io l’ho scoperto nel modo più disordinato e umano possibile, ritrovandomi in una stanza a Puerto Escondido con la testa piena di pensieri e un Mario-gatto che mi restituiva un pezzo di serenità alla volta.
E forse è proprio questo il potere dei videogiochi: non quello di salvarci — per quello servono cambiamenti reali, tempo, cura — ma quello di accompagnarci mentre proviamo a salvarci da soli. Di ricordarci che siamo ancora capaci di stupirci, di imparare, di ripartire da zero senza vergogna. Di offrirci un livello ben progettato anche quando la nostra vita sembra tutto fuorché tale.
Per questo Super Mario 3D World, ormai, non è solo uno dei miei giochi preferiti: è un promemoria gentile che porto con me. Che nei momenti in cui tutto sembra troppo, a volte basta solo premere “Start”.
Approfondimenti e Curiosità
Koomy lancia “Lettura Smart”, il nuovo modo di leggere fumetti digitali
Koomy rivoluziona la lettura del fumetto digitale: nasce la “Lettura Smart”, il modo più semplice di leggere i fumetti sui vostri dispositivi
Pubblicato
3 settimane agoil
20 Novembre 2025Da
redazione
Koomy presenta la “Lettura Smart“, un modo semplice e intuitivo di leggere i fumetti digitali. Ecco il comunicato stampa che condividiamo con i nostri lettori.
Koomy presenta la “Lettura Smart”: basta zoom manuale sui fumetti in digitale!

La prima tecnologia italiana che riconosce automaticamente le vignette ed elimina lo zoom manuale. Come guardare una serie TV: ti rilassi e scorri, vignetta dopo vignetta.
Disponibile su oltre 100 titoli dal 28 novembre, in anteprima alla Milan Games Week &
Cartoomics.
Milano, 20 novembre 2025 – Koomy, piattaforma italiana per la lettura digitale di fumetti, presenta alla Milan Games Week & Cartoomics Lettura Smart: una nuova modalità di lettura che elimina il problema dello zoom manuale e rende la lettura digitale più fluida e immersiva che mai.
Il problema: sullo smartphone, leggere fumetti è complicato
La ricerca condotta da Koomy su oltre 1000 lettori ha evidenziato che il 75% dei lettori digitali perde l’immersione nella storia a causa della necessità di zoomare continuamente sulle vignette.
Con Lettura Smart niente più interruzioni, niente più gesti ripetuti, l’app permetterà di
concentrarsi solo su quello che conta: la lettura.
“Con Lettura Smart vogliamo semplificare la lettura digitale, eliminando tutte le distrazioni e permettendo ai lettori di concentrarsi solo sul fumetto,” spiega Kristian Lentino, founder di Koomy. “È un primo passo verso un’esperienza davvero comoda, intuitiva e pensata per chi ama leggere fumetti ovunque, senza compromessi rispetto alla carta.”

Come funziona Lettura Smart ?
La nuova modalità di lettura sviluppata da Koomy riconosce automaticamente ogni singola vignetta di una tavola e adatta lo zoom in modo intelligente, seguendo il flusso narrativo della storia e offrendo una lettura vignetta per vignetta automatica.
Ogni dettaglio è pensato per offrire una lettura più immersiva, più comoda e più naturale: finalmente ci si può semplicemente rilassare e godersi i fumetti senza distrazioni.

Il tutorial
Per rendere l’esperienza più facile e intuitiva, la prima volta che si utilizzerà questa funzionalità, il lettore verrà accompagnato da un tutorial che spiegherà come funziona.

Disponibile dal 28 novembre su oltre 100 titoli
Al lancio, Lettura Smart sarà attiva su oltre 100 titoli, tra cui:
● Watchmen
● V per Vendetta
● PK Giant – 3k Edition
● Marvel Must Have: Civil War
● Spider-Man (Marvel Masterworks)
● Rat-man
● All Star Superman
● Evviva che bello
● Il mio adorabile vicino
● Sandman
● Batman – Cavaliere Bianco edizione deluxe
● Batman – The Killing Joke
I titoli compatibili sono segnalati con un badge dedicato nell’app.
Nei prossimi mesi sarà estesa a tutto il catalogo.
Koomy è la prima piattaforma italiana a integrare questa tecnologia. Sarà disponibile
gratuitamente senza costi aggiuntivi. ![]()
Provala in anteprima alla Milan Games Week!
Dal 28 al 30 novembre puoi testare Lettura Smart allo stand Koomy (Padiglione 14, Stand
H19):
– Demo live su tablet e smartphone
– Codici sconto esclusivi
– Attività e premi
Koomy: un’app che cresce insieme alla sua community
Oltre a Lettura Smart, Koomy offre funzionalità avanzate costruite grazie al continuo dialogo con la community:
● Suggerimenti su misura: la nostra app apprende dai gusti di lettura degli utenti per poter consigliare fumetti sempre più in linea con i loro interessi.
● Readlist personalizzate e condivisibili: per organizzare e condividere le proprie scoperte con amici e community.
● Reader avanzato: Il reader offre una modalità di lettura per ogni gusto: offline, vignetta per vignetta, doppia pagina e molto altro!
● News dai principali blog del settore: L’app offre un sistema di notizie integrato ai principali blog del settore per permettere di rimanere sempre aggiornati!
● Gestione dei preferiti: I lettori possono salvare e organizzare i loro fumetti preferiti in una sezione dedicata, rendendo più semplice trovarli in qualsiasi momento.
● Quest: attraverso un sistema di ricompense simile a quelle dei videogiochi, Koomy offre quest giornaliere, settimanali, mensili e una tantum da completare per guadagnare Kooins (la valuta digitale dell’app) gratuitamente.
● Sistema di passaparola: Ogni utente ha un codice univoco che può condividere con i suoi amici. Una volta che un amico usa il codice, entrambi guadagnano 125 Kooins (1,25 €).
Uno sguardo al 2026
Lettura Smart è solo il primo tassello della ambiziosa roadmap di Koomy per il 2026, che prevede:
● Servizio in abbonamento su una parte del catalogo disponibile
● Piattaforma web per lettura anche da computer
● Espansione del catalogo tramite nuovi accordi con editori leader del settore
● Nuove funzionalità per rendere ancora più facile leggere e scoprire nuovi fumetti
● Eventi offline per incontrarsi con la community
Dove scaricare l’app
L’app è disponibile sia su smartphone che tablet per iOS e Android ai seguenti link:
– App Store iOS
– Play Store Android
Per maggiori informazioni, visitate il sito www.koomy.it o seguite i canali social ufficiali:
● Instagram: @officialkoomy
● YouTube: @officialKoomy
● TikTok: @officialkoomy
Fonte: CS Koomy
Approfondimenti e Curiosità
C’è Posta per Nerd: il Nerd Chop Express sbarca su Radio Levante dal 14 novembre
Gli amici del Nerd Chop Express sbarcano con C’è Posta per Nerd su Radio Levante, il nuovo programma sul mondo nerd in arrivo ogni venerdì a partire dal 14 novembre
Pubblicato
1 mese agoil
13 Novembre 2025Da
redazione
Nerd Chop Express, il podcast per veri nerd che potete seguire su Spotify, sbarca su Radio Levante. Ecco il comunicato stampa che condividiamo con i nostri lettori e che svela tutti i dettagli del nuovo programma C’è Posta per Nerd!
“C’È POSTA PER NERD”
Da venerdì 14 novembre alle 15:00 su Radio Levante arriva il nuovo programma del NERD CHOP EXPRESS!
Il mondo nerd conquista anche la radio!

Da venerdì 14 novembre 2025, alle ore 15:00, debutta su Radio Levante il nuovo programma “C’è posta per Nerd”, firmato e condotto dalla ciurma del NERD CHOP EXPRESS.
Un appuntamento settimanale di un’ora che raccoglie tutto ciò che un vero appassionato di cultura pop ama: serie TV, anime, manga, fumetti, videogiochi, cinema, curiosità e rubriche a tema.
Un viaggio ironico, nostalgico e divertente nel cuore del mondo nerd, perfetto per chi vive di pixel, storie e fantasia.
IL FORMAT
Quando: ogni venerdì alle 15:00, a partire dal 14 novembre 2025
Durata: 1 ora
Dove ascoltarci: esclusivamente sull’app di Radio Levante, disponibile su Apple Store e Google Play Store
Condotto da: la ciurma del NERD CHOP EXPRESS, la voce del mondo nerd italiano
Registrato con la solita energia e ironia del Nerd Chop Express, il programma propone ogni settimana un concentrato di contenuti dedicati all’universo nerd: notizie, approfondimenti, curiosità e momenti nostalgia.
Un contenitore ricco e colorato, dove ogni appassionato potrà sentirsi a casa.
COSA TROVERAI A “C’È POSTA PER NERD”

- Notizie e aggiornamenti dal mondo nerd e geek
- Ospiti e doppiatori italiani del panorama del doppiaggio e dell’intrattenimento
- Rubriche e curiosità dedicate alla cultura pop
- Approfondimenti su anime, fumetti, cinema e videogiochi
- Momenti nostalgia per rivivere i classici che ci hanno cresciuti
L’OBIETTIVO
Creare un punto d’incontro per tutti gli appassionati della cultura nerd, offrendo un’ora di intrattenimento, informazione e divertimento genuino.
“C’è posta per Nerd” è una lettera aperta alla community, un modo per unire le generazioni attraverso la passione comune per tutto ciò che è pop e fantastico.
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- Hashtag ufficiale: #NerdChopExpress
Prima puntata: venerdì 14 novembre 2025, ore 15:00
Fonte: CS
Essenza Ludica: Quando un platform ti tiene a galla: il lato terapeutico di Mario 3D World
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