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Essenza Ludica #3: Tomonobu Itagaki, l’ultimo vero Ninja
Su Essenza Ludica spazio oggi alla carriera di Tomonobu Itagaki, recentemente scomparso, creatore di Dead Or Alive e Ninja Gaiden
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1 mese agoil
Addio a Tomonobu Itagaki, l’ultimo ribelle del game design: un samurai digitale in un mondo di cloni senz’anima
Bentornati su Essenza Ludica! Oggi non parliamo solo di videogiochi, ma di identità. Di uno di quegli autori che avevano un volto, una voce e, soprattutto, un’idea precisa di cosa dovesse essere un videogioco: Tomonobu Itagaki.
Con la sua recente scomparsa, se ne va uno degli ultimi veri samurai del game design — un autore che non si nascondeva dietro ai loghi, che metteva il proprio nome davanti ai titoli come una firma di guerra. In un’industria sempre più levigata, dove i tripla A sembrano uscire tutti dallo stesso laboratorio di clonazione, Itagaki era l’anomalia, l’eccezione, il colpo di katana che rompe la monotonia.
Il suo percorso, dalle origini in Tecmo fino alla fondazione di Team Ninja, è la parabola di un creatore che non ha mai smesso di osare, anche quando osare significava andare contro tutto e tutti. Ninja Gaiden, Dead or Alive, Devil’s Third — ognuno, a modo suo, un manifesto di una visione senza compromessi, ruvida, personale. Oggi celebriamo Itagaki non solo per i giochi che ha creato, ma per l’idea stessa di autore che rappresentava: quella che nel mondo dei poligoni e dei budget miliardari sembra ormai appartenere a un’epoca lontana.
Dai touchdown alle katane — quando Itagaki allenava i riflessi sui campi di Tecmo
Prima dei ninja, prima delle kunai e delle combo impossibili, Tomonobu Itagaki ha iniziato la sua corsa tra campi da gioco digitali e spalti virtuali. Niente katane, ma palloni e mazze da baseball: il suo debutto in Tecmo passò infatti dai titoli sportivi come Tecmo super Bowl e Tecmo Super Baseball.

Erano gli anni in cui il Giappone cercava di reinterpretare il linguaggio arcade in chiave più “americana”, e Itagaki — giovane programmatore con più ambizione che esperienza — cominciava a farsi le ossa proprio lì, lavorando sull’equilibrio, sul ritmo, sul “feeling” del controllo.
È curioso pensare che uno dei maestri del combattimento videoludico abbia imparato il mestiere facendo segnare touchdown. Ma proprio in quei pixel da domenica pomeriggio c’era già la sua ossessione: il movimento come linguaggio, la risposta immediata tra giocatore e schermo. Prima ancora di tagliare nemici a metà, Itagaki stava imparando a far sentire ogni gesto — anche un semplice passaggio — come qualcosa di fisico, reale, giusto.
Non era affatto male, Tecmo Super Bowl. Non il mio genere, per niente — troppo casco e troppo fischietto per i miei gusti — ma bisogna riconoscergli che all’epoca fece un gran rumore. Una delle prime simulazioni sportive a gestire statistiche reali, stagioni complete e una fluidità che molti concorrenti potevano solo sognarsi. Itagaki stava ancora imparando, ma già si intuiva quel gusto per il dettaglio e per la risposta immediata ai comandi che diventerà la sua firma.
Ma lasciamo da parte i touchdown e torniamo alle katane: è ora di parlare di ciò per cui siamo davvero qui. Dei giochi che hanno consacrato Tomonobu Itagaki come uno degli ultimi veri maestri del game design d’autore — quelli in cui l’azione non si gioca, si vive.
Dead or Alive — L’arte marziale del fanservice (e dell’inganno)
Diciamolo subito: quando si nomina Dead or Alive, la mente di molti corre istintivamente a tette ballonzolanti e chiappe marmoree. È quasi un riflesso pavloviano, un’immagine scolpita nella cultura pop da anni di trailer discutibili e versioni “beach volley” che hanno fatto più parlare di fisica che di combattimento. Ma fermarsi lì è un errore madornale — anzi, un’ingiustizia.

Sotto la superficie lucida di costumi improbabili e slow motion strategici, DOA nasconde una delle esperienze di picchiaduro più tecniche e feroci mai concepite. Itagaki usava il fanservice come specchietto per le allodole, una distrazione per i profani. In realtà, stava costruendo un sistema di combattimento basato su tempismo, reazione e lettura dell’avversario, un balletto letale in cui un solo errore poteva costarti il match. Altro che “gioco per guardoni”: Dead or Alive era una lezione di design puro, elegante e spietato.
Il cuore pulsante di Dead or Alive è una morra cinese da arti marziali, un triangolo perfetto dove ogni scelta ha il suo predatore naturale. Attacco batte presa, presa batte parata, parata batte attacco — semplice a dirsi, infernale da padroneggiare. Questo sistema, chiamato Triangle System, è la chiave di volta dell’intera serie: una danza di riflessi e anticipazione in cui leggere l’avversario vale più di qualunque combo spettacolare.
Itagaki non voleva solo che tu picchiassi: voleva che pensassi mentre picchiavi. Ogni colpo, ogni schivata, ogni contrattacco è un rischio calcolato. Il bello — o il terribile, a seconda del tuo autocontrollo — è che tutto avviene a velocità fulminante. In DOA, un errore di mezzo secondo non è un “quasi”, è una condanna. E quando sbagli, sai benissimo che non è colpa del gioco: è colpa tua.
In un’epoca in cui molti picchiaduro si rifugiano in combo preconfezionate e spettacolo da sala giochi, Itagaki costruì un sistema puro, essenziale, mentale. Dietro l’effetto patinato, Dead or Alive era una partita a scacchi giocata con i pugni — e il più intelligente, non il più aggressivo, porta a casa la vittoria.
Poi arrivò Dead or Alive Ultimate, e lì le cose cambiarono davvero. Tecnicamente un remake del secondo capitolo, in realtà fu la consacrazione definitiva della serie. Itagaki limò ciò che c’era da limare, sistemò ciò che andava sistemato, e soprattutto alzò l’asticella in termini di precisione e profondità. Le parate — fino ad allora un po’ troppo “gratuite” — vennero rese più tecniche, più rischiose: bisognava parare al momento giusto, ma anche in modo diverso a seconda che arrivasse un pugno o un calcio. Un dettaglio che separava i giocatori bravi dagli ossessionati, e che trasformava la difesa in un’arte a sé, degna di un dojo digitale.
Ma la vera magia di Ultimate fu l’online. Per la prima volta su console — la prima Xbox, roba da pionieri digitali — ci si poteva sfidare a colpi di combo attraverso la rete. Un’idea oggi banalissima, ma allora era pura fantascienza: niente lobby patinate o matchmaking automatici, solo tu, il tuo personaggio e un avversario invisibile dall’altra parte del mondo, pronto a farti vedere chi era il vero ninja.
Io lo ricordo bene: non feci altro per mesi. Fidanzata ignorata, amici spariti, lavoro trascurato. C’ero solo io, l’Xbox, e un’ossessione chiamata Dead or Alive Ultimate. Ogni vittoria era un’epifania, ogni sconfitta una lezione di umiltà. Itagaki non aveva solo creato un picchiaduro: aveva costruito un dojo globale, un luogo dove imparare il rispetto — o la rabbia — un frame alla volta.
Con Dead or Alive 4, la storia si ripeté — ma in quel modo che ti fa sorridere, non sbadigliare. Un more of the same? Certo. Ma un more of the same decisamente gustoso, lucidato per la nuova generazione e potenziato da un comparto online che, su Xbox 360, era ormai maturo e micidiale. Io, personalmente, ci ho passato centinaia di ore. E lo dico senza vergogna: ero piuttosto bravo.
La mia Tina Armstrong scalava le classifiche mondiali con una grazia da wrestler e la potenza di un TIR lanciato in discesa. Mi fermavano solo i veri pro, quelli che vedevano i frame in slow motion. La mia tecnica? Semplice, ma efficace: fingere prevedibilità. Mostrarmi leggibile, quasi banale, per spingere l’avversario a tentare una counter. A quel punto — zac! — command grab devastante, con danno extra per aver osato counterare la mia finta. Un dolore fisico e morale per il poveretto che, in quel momento, potevo quasi vedere: occhi sgranati, pollici fermi, il silenzio gelido di chi ha appena perso la partita che credeva già vinta.
Ecco cos’è Dead or Alive: non combo da scimmia ammaestrata, ma gioco mentale, timing e nervi saldi. È il piacere di entrare nella testa dell’altro, di anticiparlo, di umiliarlo con eleganza. Itagaki lo sapeva benissimo — e DOA4 fu il suo ultimo grande sorriso sornione al mondo dei picchiaduro.
Ninja Gaiden — Il dolore come forma d’arte
Con Ninja Gaiden, Tomonobu Itagaki smise di flirtare con il giocatore. Niente più parate morbide, niente più grazia: qui ogni errore era una ferita vera. Quando il gioco uscì nel 2004 su Xbox, sembrò arrivare da un’altra epoca — una in cui la difficoltà non era un filtro di selezione per streamer sadici, ma un linguaggio estetico. Ninja Gaiden non voleva piacerti: voleva domarti.

Il sistema di combattimento era un’evoluzione diretta del pensiero di Dead or Alive: stesso culto per il tempismo, ma portato all’estremo, con un ritmo quasi coreografico. Ogni nemico era un test di concentrazione, ogni scontro una danza letale dove l’unico margine d’errore era la tua presunzione. Itagaki costruiva boss fight che ti insegnavano a cadere, a fallire, a rialzarti con un dito in più sulla levetta analogica e una bestemmia in meno.
E poi c’era la violenza. Non quella gratuita, ma la violenza come linguaggio, come dichiarazione di poetica. Tagliare un avversario in due non era solo spettacolo, era catarsi: la liberazione del giocatore che finalmente padroneggia il sistema, che smette di sopravvivere e inizia a danzare. Ninja Gaiden non era un gioco d’azione: era un rituale di precisione, un allenamento spirituale travestito da massacro.
Ninja Gaiden era, nella sua forma più pura, un action senza compromessi. Niente open world, niente dialoghi infiniti o bivi morali: si partiva dal punto A e si arrivava al punto B massacrando tutto ciò che respirava nel mezzo. Ma non era un macello cieco — era arte marziale in movimento. Ogni colpo andava guadagnato, ogni parata studiata, ogni uccisione meritata. Nessuna combo gratuita, nessun “premi X per vincere”: solo tu, la spada, e il ritmo perfetto di un gameplay tecnico, pulito, chirurgico.
In un’epoca in cui il videogioco mainstream cominciava quel declino di comodità da cui non si è ancora ripreso — checkpoint ogni cinque passi, tutorial invadenti, salvataggi automatici come ruote di scorta per chi ha paura di sbagliare — Ninja Gaiden ti lanciava invece nel fuoco e ti diceva: “diventa bravo o muori.” Nessun aiuto, nessuna pietà, ma la soddisfazione vera, quella che oggi si è quasi dimenticata: migliorare, crescere, superare il gioco con le proprie mani.
Itagaki aveva distillato l’essenza perduta del videogioco: l’idea che giocare non sia essere accompagnati, ma essere messi alla prova. E quando finalmente battevi quel boss che ti aveva umiliato per ore, non avevi solo finito un livello — avevi vinto contro te stesso.
L’ho divorato all’uscita, e resta saldamente ancorato nella mia top 5 dei migliori action di sempre.
Con Ninja Gaiden II, Itagaki decise di alzare ancora la posta. Se il primo era una prova di pazienza e precisione, il secondo era una sinfonia di caos controllato. Tutto diventò più rapido, più sanguinario, più estremo — un balletto di arti mozzate, urla e shuriken che sembrava uscito da un incubo diretto da Kurosawa dopo una notte insonne. Ryu Hayabusa non era più un ninja: era una divinità della distruzione, e il giocatore il suo sacerdote.
Il ritmo era serrato, quasi disumano. Gli avversari ti circondavano, ti costringevano a muoverti senza sosta, e il sistema di combattimento — già perfetto nel primo — diventava qui una danza di riflessi e memoria muscolare. Ogni arma aveva un suo peso, un suo flusso, un suo modo di fendere l’aria. E quando trovavi la sincronia, quando la lama e il pensiero diventavano uno, Ninja Gaiden II ti regalava quel brivido che solo pochi giochi sanno dare: la sensazione di padroneggiare il caos.
Mentre l’industria spingeva verso la spettacolarità passiva e il giocatore-assistito, Itagaki raddoppiava la posta. Nessuna semplificazione, nessuna concessione. Solo pura abilità, precisione, rabbia e bellezza fuse in un’unica esperienza. Il sangue non era lì per scandalizzare, ma per ricordarti che ogni colpo aveva peso, ogni vittoria un costo.
Forse leggermente al di sotto del primo, Ninja Gaiden II è comunque un action stupendo, come ormai si vedono raramente. Di recente è uscito un remake, una scusa per provarlo, se siete stufi di essere trattati come lattanti incapaci di impugnare un pad.
L’ultimo taglio — l’addio di un ninja
Dopo Ninja Gaiden II, calò la nebbia. Tomonobu Itagaki lasciò Tecmo in circostanze tutt’altro che pacifiche — accuse, cause legali, voci di tradimenti e rancori covati nei corridoi. Un’uscita di scena quasi teatrale, degna del suo personaggio: un samurai che getta la spada a terra e abbandona il clan, non perché sconfitto, ma perché non disposto a piegarsi. Da quel momento, il Team Ninja continuò a esistere… ma senza il suo ninja più pericoloso, sembrò perdere l’anima.
Itagaki fondò poi Valhalla Game Studios e tentò di tornare con Devil’s Third, un progetto ambizioso, irrequieto, sfortunato. Non era più il tempo degli autori fuori controllo, e il mondo del gaming — ormai blindato nei suoi franchise miliardari — non sapeva più come accogliere uno come lui. Ma anche in quella caduta, c’era coerenza: non ha mai smesso di essere Itagaki, nel bene e nel male. Orgoglioso, provocatore, irriducibile.
Con la sua scomparsa, non perdiamo solo un designer. Perdiamo un’idea di videogioco: quella fatta di carattere, rischio, visione personale. Tomonobu Itagaki non era perfetto — e meno male.

Perché la perfezione è noiosa. Lui, invece, era vivo. Come i suoi giochi: duri, eleganti, folli. Proprio come dev’essere il videogioco, quando smette di voler piacere a tutti e torna a voler colpire.
Oggi che il mondo dei giochi sembra sempre più preoccupato di non farci soffrire, di non farci fallire, Itagaki resta lì — come un’ombra dietro lo schermo — a ricordarci che la sfida è l’anima del gioco. Che la perfezione non si raggiunge semplificando, ma cadendo e rialzandosi.
Addio, Itagaki. Ultimo ninja, samurai del pad. Ci lasci un vuoto, ma anche una lezione che vale più di mille sequel: il videogioco non deve coccolarti, deve temprarti. E finché ci sarà qualcuno disposto a premere “Restart” invece di “Easy Mode”, il tuo spirito continuerà a combattere.
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Essenza Ludica: Quando un platform ti tiene a galla: il lato terapeutico di Mario 3D World
Su Essenza Ludica si parla di Super Mario 3D World e benessere mentale: una storia vera su come un videogioco può offrire conforto.
Pubblicato
23 ore agoil
14 Dicembre 2025
Super Mario 3D World è uno di quei titoli che sembravano destinati a rimanere intrappolati nel purgatorio dorato del Wii U: amato da chi l’aveva giocato, ignorato dal resto del mondo perché — diciamolo — la console Nintendo meno capita dell’ultimo ventennio non era esattamente il posto ideale per un capolavoro.
Quando uscì nel 2013, il panorama videoludico stava cambiando pelle: PS4 e Xbox One inauguravano l’era dell'”open world a tutti i costi”, i tripla A lucidavano muscoli e shader, e il povero Wii U arrancava come un Toad senza power-up. In questo clima da transizione un po’ schizofrenica, Nintendo tirò fuori un platform isometrico lucidissimo, erede di 3D Land, che preferiva l’invenzione geometrica al gigantismo a mappa aperta. Un gioco che ti metteva davanti livelli cesellati con precisione ossessiva, una cooperativa irresistibile e quell’estetica da laboratorio Nintendo in stato di grazia.
Sul piano critico fu un trionfo quasi unanime. Sul piano commerciale… fece quello che poteva. Con circa sei milioni di copie vendute, 3D World diventò uno dei titoli più popolari del Wii U, ma il problema era la console stessa: un palco mezzo vuoto, incapace di dare al gioco l’esposizione che meritava. Per un Mario tridimensionale, un potenziale da 15-20 milioni buttato su una base installata di 13 scarsi era una missione impossibile. Non era il gioco ad aver sbagliato qualcosa; era il pubblico potenziale rimasto fuori dalla porta.

Quando Nintendo ha deciso di dargli una seconda vita su Switch, con l’edizione del 2021 accompagnata dall’espansione Bowser’s Fury, il mondo ha finalmente fatto la conoscenza che avrebbe dovuto fare anni prima. Le recensioni internazionali — entusiaste fino all’imbarazzo — parlavano di “trionfo”, “gioiello di precisione”, “laboratorio di creatività in formato platform”. Insomma: non era l’ennesimo Mario, era il Mario che rischiava di non essere visto.
Un design che ti tiene per mano (nel senso buono)
La struttura di Super Mario 3D World è la prova vivente che Nintendo, quando vuole, riesce a trasformare la geometria in intrattenimento puro. Niente open world dispersivi, niente hub contemplativi: qui si torna a un’impostazione a mondi e livelli, old school ma filtrata attraverso la lente tridimensionale estremamente ordinata inaugurata da 3D Land.

Ogni stage è un’idea: compatta, leggibile, autoconclusiva, progettata per durare il tempo giusto prima di sparire e lasciare spazio alla successiva. È un design “a vignette”, dove il ritmo è dato dal continuo susseguirsi di concept: un livello sul vento, uno sulle piattaforme trasparenti, uno sui doppelgänger, uno sul ritmo musicale… un carosello che ti impedisce di annoiarti perfino se ci provi.
La mappa, con la sua finta libertà di movimento, funziona da buffer respiratorio: cammini, giochi a calcio con Goomba innocenti, fai due passi in un teatrino interattivo e poi entri nel prossimo micro-mondo di follia controllata. È un platform che non ti chiede mai di sposare un’idea per ore e ore; te la presenta, te la fa assaggiare, e la sostituisce con qualcos’altro prima che il tuo entusiasmo cali. Una filosofia quasi da degustazione: piccole porzioni di creatività servite una dietro l’altra, senza appesantire mai.
La cooperativa (ovvero: come rovinare le amicizie con stile)
La cooperativa di Super Mario 3D World è quel tipo di genialata Nintendo che parte come un invito all’armonia familiare e finisce, di solito, come un test di sopravvivenza delle relazioni. Fino a quattro giocatori in contemporanea, ognuno con il proprio peso specifico sul gameplay: il salto più alto di Luigi, la velocità di Toad, la grazia acrobatica di Peach, e Mario… be’, Mario che fa il Mario.

Il livello design, già calibrato al millimetro in solitaria, si trasforma in un caos organizzato quando entra in scena la compagnia: piattaforme che diventano ring, power-up contesi come fosse l’ultimo panettone a dicembre, e quella danza continua tra collaborazione e sabotaggio involontario. È una cooperativa pensata non solo per “aggiungere gente a schermo”, ma per riscrivere il tono della partita: ogni livello cambia ritmo, difficoltà e persino comicità a seconda di quante mani — e quante intenzioni — sono coinvolte.
Il miracolo è che funziona: anziché rompersi sotto il peso dell’anarchia, il gioco la abbraccia e la trasforma in parte del divertimento. E se capita di buttare giù un amico da una piattaforma stretta… è sempre stato colpa della fisica, ovviamente.
Lo studio tedesco: quando Mario smette di essere solo un gioco
Qualche anno fa, un team di ricercatori tedeschi ha fatto ciò che molti giocatori sospettavano da tempo: ha messo Mario in un laboratorio. Non per misurargli il consumo di funghi, ma per capire se un platform ben progettato potesse avere un impatto reale sull’umore.
Il risultato? Un gruppo di partecipanti con sintomi depressivi, dopo alcune sessioni di Super Mario Odyssey, mostrava miglioramenti comparabili a quelli ottenuti con trattamenti più tradizionali, soprattutto in termini di motivazione e benessere percepito. Gli studiosi parlarono di “stimolazione cognitiva positiva” e “senso di progressione chiaro e gratificante”.
Tradotto dal linguaggio accademico: il cervello, quando gli dai qualcosa di brillante, strutturato e gentile con la dopamina, risponde. E mentre il mondo scientifico si interrogava su come un idraulico baffuto potesse avere effetti terapeutici misurabili, molti giocatori alzarono le spalle: “Benvenuti, scienziati. Noi lo diciamo dall’86.”
Lo studio:
- Titolo: “Effects of a video game intervention on symptoms, training motivation, and visuo-spatial memory in depression”
- Autori: Moritz Bergmann, Ines Wollbrandt, Lisa Gittel, Eva Halbe, Sarah Mackert, Alexandra Philipsen, Silke Lux
- Pubblicazione: 2023
- Contesto: 46 persone con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) divise in tre gruppi: chi giocava a Super Mario Odyssey su Switch, chi faceva training cognitivo con “CogPack”, e chi seguiva trattamento standard (psicoterapia e/o farmaci)
Risultati principali:
- Dopo 6 settimane, il gruppo Mario mostrava la diminuzione più significativa di sintomi depressivi clinicamente rilevanti
- Motivazione maggiore a continuare il “trattamento” ludico rispetto al gruppo CogPack
- Miglioramenti nei test su memoria visuo-spaziale e funzioni cognitive
Conclusioni dei ricercatori: Un intervento con videogiochi 3D potrebbe aumentare il benessere soggettivo, incrementare la motivazione al training e potenzialmente migliorare alcune funzioni cognitive in soggetti con depressione maggiore — con le dovute cautele sulla dimensione del campione e la necessità di ulteriori ricerche.
Messico, burnout e un idraulico baffuto
A un certo punto ho deciso che questo articolo avrebbe fatto una cosa un po’ fuori dal coro: togliersi il cappello da critico videoludico e infilarsi, per una volta, dentro il personale.
Molti anni fa ho attraversato una fase della vita che definire “pesante” è un eufemismo degno di un comunicato stampa. Un mix di stress lavorativo, responsabilità che si moltiplicavano come Goomba e un paio di casini personali che avrei volentieri parcheggiato in un warp zone lontanissima ha finito per schiacciarmi fino al punto di rottura. Il risultato è stato un burnout vero, profondo, di quelli che ti svuotano e ti spezzano il ritmo interiore.
Il punto è che burnout e depressione, pur non essendo la stessa cosa, sembrano parenti stretti che si scambiano il cappotto all’ingresso. Il burnout nasce in genere da un logoramento prolungato — lavorativo, emotivo, relazionale — che ti consuma poco alla volta, come una batteria che resta sempre in modalità “risparmio energetico” senza mai ricaricarsi davvero. La depressione è una condizione clinica più ampia e complessa, ma i due mondi si sovrappongono spesso: la stanchezza costante, la difficoltà a provare piacere nelle cose, il sentirsi scollegati da sé stessi, la perdita di motivazione e quel pensiero ricorrente che “non ce la farò mai a tornare come prima”.
Il burnout può non arrivare al buio profondo della depressione maggiore, ma ne condivide la modalità: ti annebbia il giudizio, ti toglie il colore dalle giornate, ti fa vivere ogni gesto come un ostacolo in più da superare. E soprattutto — qui sta la trappola — può trasformarsi nella porta d’ingresso della depressione se ignorato o minimizzato.
Ne sono uscito solo cambiando radicalmente stile di vita, prendendo tempo per me, viaggiando e ricucendo le priorità. Ma il burnout, proprio come i boss più ostinati, a volte torna a presentare il conto: non ogni giorno, non sempre allo stesso modo, ma abbastanza da ricordarti che la partita non è mai completamente chiusa.
Puerto Escondido: il paradiso sbagliato
Due anni fa, quel vecchio fantasma ha bussato di nuovo alla porta, e lo ha fatto in un momento che sulla carta avrebbe dovuto essere perfetto.

Ero in Messico, zona Puerto Escondido. Da nomade digitale, abituato a vivere in giro per il mondo, avrei dovuto sentirmi nel mio elemento: amici di vecchia data nei paraggi, clima morbido, onde che sembrano disegnate da uno shader particolarmente romantico.
E invece niente. Il vibe locale, quella miscela di surf, yoga e vita alla giornata, mi scivolava addosso. La zona, ormai super gentrificata, oscillava tra il fasto da cartolina e un’insofferenza sempre più evidente da parte dei local.
A complicare le cose, arrivavo lì in un momento di grande trasformazione personale: avevo appena finito un master, mi muovevo tra progetti importanti, con un senso di scopo che finalmente tornava a pulsare. Ero in modalità “costruire”, non “galleggiare”.
E invece Puerto Escondido pullulava di gente che lavorava una stagione, incassava abbastanza per qualche mese di birrette oceaniche e poi… si vede. Una filosofia perfettamente legittima, quasi invidiabile, ma per me era come osservare un ecosistema che parlava un dialetto emotivo che non conoscevo più.
Io ero lì con la testa piena di obiettivi e visioni di lungo periodo; loro viaggiavano leggeri, con il presente come unico bagaglio a mano. Nessun giudizio: solo un distacco crescente, una sensazione da pesce fuor d’acqua.
Mentre tutti attorno sembravano entrare e uscire dalle feste come NPC perfettamente programmati per il buonumore, io mi sentivo fuori posto. Loro si divertivano con una naturalezza da trailer turistico, surf all’alba e tequila al tramonto; io arrancavo dietro a un’energia che non era la mia.
E poi c’era l’età: avevo appena compiuto 46 anni, quel punto in cui ti aspetti di aver risolto almeno il tutorial della vita, e invece sei ancora lì a premere tasti a caso. In mezzo a ventenni e trentenni fluttuanti tra beach party e volontariato spirituale, ero la figura fuori posto: troppo adulto per fingere leggerezza, troppo stanco per improvvisarla, troppo lucido per ignorare la frattura che si stava aprendo sotto i piedi.
Ed è in quella discrepanza — tra la festa intorno e il silenzio dentro — che il down ha iniziato a premere con tutta la sua forza.
Ritrovare sé stessi, un livello alla volta
Ed è stato proprio lì, in quel miscuglio di solitudine paradossale e rumore di festa, che ho trovato un appiglio inatteso: Super Mario 3D World.
Una sera, dopo l’ennesima giornata passata a sentirmi fuori fase con il mondo, ho acceso la Switch quasi per riflesso. E nel momento in cui il jingle di apertura ha riempito la camera, tutto ha fatto click.

La bellezza di quel gioco, in quella situazione, era la sua capacità di darmi ciò che fuori mancava: una struttura chiara, un obiettivo alla volta, un ritmo comprensibile. Là fuori mi sentivo un quarantenne spaesato, lì dentro ero di nuovo un giocatore con una direzione, un percorso, un micro-scopo chiaro che, in quel momento, valeva più di mille feste perfette.
Super Mario 3D World non mi chiedeva di essere leggero: mi aiutava a ritrovarla, un grammo alla volta.
Una delle cose più sorprendenti di Super Mario 3D World, in quel periodo, è stata la facilità con cui riusciva a riportarmi a uno stato mentale che non provavo da anni: la sensazione di tornare bambino. Non in senso ingenuo o nostalgico da poster motivazionale, ma in quel modo autentico in cui il cervello si concede finalmente di abbassare le difese.
Ogni volta che entravo in un livello, era come infilarmi sotto una coperta che conoscevo benissimo: le musiche leggere, i suoni familiari, quelle animazioni morbide che sembrano uscire da un’epoca della vita in cui tutto era più semplice. Non c’era bisogno di spiegare nulla, non c’era da “performare”: c’era solo da giocare.
Ed è incredibile quanto sollievo possa dare essere cullati da qualcosa che parla la lingua della tua infanzia, quando fuori tutto sembra urlare in un idioma che non capisci più. In Messico, mentre il mondo reale mi chiedeva di sintonizzarmi su frequenze emotive sbagliate per me, Mario mi riportava su una banda che conoscevo perfettamente: quella della meraviglia, del ritmo, del piccolo progresso che scalda il cuore.
Per un’ora al giorno, forse meno, non ero il quarantenne smarrito che cercava il proprio posto tra surfisti e nottambuli: ero il bambino che si stupiva di nuovo di fronte a un livello fatto bene. Ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Perché funziona
La verità è che Super Mario 3D World funziona benissimo come gioco-comfort perché parla la lingua che in quei momenti la mente capisce ancora: regolarità, chiarezza, piccole vittorie.
Il suo design “a vignette” è una benedizione per chi ha la testa impastata: ogni livello è breve, nitido, perfettamente contenuto. Non ti chiede immersioni infinite, non pretende concentrazione maratonetica; ti offre invece micro-percorsi che si chiudono in cinque minuti, ciascuno con un obiettivo limpido e una struttura che restituisce immediatamente un senso di competenza.
È l’opposto dei mondi sconfinati che ti lasciano scegliere “cosa fare” quando tu non sai nemmeno “come stare”: 3D World ti prende per mano, ti propone un puzzle elegante, ti dà un feedback chiaro e ti rimette in pista.

In più, la sua estetica zuccherina — colori pastello, musiche leggere, animazioni buffe — non è solo un vezzo artistico: è un balsamo emotivo. È difficile sentirsi completamente sbagliati quando un Mario-gatto si arrampica su un muro come se stesse facendo ginnastica per bambini.
E poi c’è il ritmo, quel flusso continuo di idee che si alternano senza strafare: abbastanza vario da stimolarti, abbastanza contenuto da non sopraffarti. In un periodo in cui la realtà fuori sembrava un livello progettato male, 3D World era il livello progettato benissimo che mi ricordava che, da qualche parte, le cose potevano ancora avere un senso.
La difficoltà giusta
Ricordavo Super Mario 3D World come un titolo quasi troppo permissivo. La prima volta, ai tempi del Wii U, lo avevo archiviato nella categoria dei “platform gentili”: brillante, sì, ma con una difficoltà che raramente ti mordeva le caviglie.
Ma in Messico quella percezione si è ribaltata del tutto. Quella “facilità” che un tempo mi sembrava un difetto lì è diventata una virtù chirurgica: il livello esatto di permissività che serve quando la tua mente non è in forma e ha bisogno di un’esperienza che non la faccia sentire in fallimento ogni tre minuti.
3D World non ti punisce con cattiveria, non ti schiaccia, non ti espone alla frustrazione: ti incoraggia, ti accarezza l’ego quel tanto che basta a tenerti in movimento. È un gioco che concede spazio all’errore senza trasformarlo in giudizio, che ti permette di sperimentare senza il timore di perdere tutto.
In quel contesto emotivo, la sua difficoltà morbida non era “banale”: era calibrata, precisa, quasi terapeutica. Non avevo bisogno di un platform che mettesse alla prova la mia abilità; avevo bisogno di un platform che mettesse in pausa la mia ansia. E 3D World ci riusciva con la naturalezza con cui altri giochi, ben più ambiziosi, provano a fallire da anni.
Un Mario diverso, stessa medicina
Lo studio tedesco parlava di Super Mario Odyssey, certo: un’avventura gigantesca, scintillante, costruita proprio per stupire e tenerti agganciato livello dopo livello. Ma per me, invece, il gioco che ha fatto scattare qualcosa è stato Super Mario 3D World.
Non ha la grandeur esplorativa di Odyssey, non ha i regni sconfinati né le acrobazie del cappello posseduto: ha qualcosa di più discreto, più umile, più… calibrato. E forse è proprio questo il punto. Mentre i ricercatori misuravano la luce nei volti di chi attraversava New Donk City, io la ritrovavo negli angoli squadrati e gentili dei livelli di 3D World, in quel ritmo perfetto che ti tiene per mano senza tirare né spingere.
È paradossale: lo studio parlava di un altro Mario, ma la sua conclusione — quella scintilla di benessere, di motivazione ritrovata — io l’ho vissuta su un palco diverso, con un protagonista ugualmente baffuto ma con un mood tutto suo.
Ed è anche grazie a questo intreccio imprevisto tra scienza e vita che Super Mario 3D World è diventato per me uno dei migliori giochi di sempre: non solo per come è progettato, ma per come mi ha tenuto insieme quando ne avevo più bisogno.
Alla fine, questa storia non parla davvero di me in Messico né di quanto fosse stonata la colonna sonora emotiva in mezzo a un mare di surfisti felici. Non parla nemmeno solo di Mario, per quanto il buon idraulico baffuto abbia fatto più per il mio equilibrio mentale di molti manuali di auto aiuto.
Parla di un’idea semplice, che continuiamo a sottovalutare: i videogiochi, quando sono fatti con cura e intelligenza, possono diventare luoghi. Rifugi. Stanze sicure in cui respirare quando fuori l’aria si fa troppo pesante.
Lo studio tedesco ha provato a dimostrarlo con dati e tabelle; io l’ho scoperto nel modo più disordinato e umano possibile, ritrovandomi in una stanza a Puerto Escondido con la testa piena di pensieri e un Mario-gatto che mi restituiva un pezzo di serenità alla volta.
E forse è proprio questo il potere dei videogiochi: non quello di salvarci — per quello servono cambiamenti reali, tempo, cura — ma quello di accompagnarci mentre proviamo a salvarci da soli. Di ricordarci che siamo ancora capaci di stupirci, di imparare, di ripartire da zero senza vergogna. Di offrirci un livello ben progettato anche quando la nostra vita sembra tutto fuorché tale.
Per questo Super Mario 3D World, ormai, non è solo uno dei miei giochi preferiti: è un promemoria gentile che porto con me. Che nei momenti in cui tutto sembra troppo, a volte basta solo premere “Start”.
Collezionismo e Merchandise
L’arte di Cuphead alla MGWCMX 2025: dietro le quinte dell’Artbook Tomadachi Press
Alla Milan Games Week 2025 Dario Moccia e lo staff di Tomodachi Press presente hanno presentato l’Official Artbook di Cuphead: un viaggio tra arte e carte collezionabili
Pubblicato
6 giorni agoil
9 Dicembre 2025Da
Daniele
La Milan Games Week 2025 si è confermata ancora una volta come uno degli appuntamenti più importanti per il mondo dei videogiochi, della cultura pop e dell’intrattenimento digitale. Tra anteprime, ospiti internazionali, tornei esport e novità hardware, uno degli eventi più intensi e applauditi si è svolto al Sullivan Stage Powered by Game Life, dove è andato in scena il panel dedicato a Cuphead – Out of the Cards, l’Official Artbook che celebra il celebre videogioco attraverso l’arte di decine di artisti.
Un incontro attesissimo, che ha richiamato non solo i fan del titolo di Studio MDHR, ma anche collezionisti, illustratori, appassionati di street art, fumetti, animazione e cultura nerd a 360 gradi. Protagonista sul palco parte del team di Tomodachi Press: Dario Moccia, Davide Masella, Plot Jacobs, Nico Ray e numerosi altri artisti che hanno contribuito a rendere questo progetto una vera e propria opera corale.

Un progetto nato quasi per necessità
Durante il panel è stato raccontato come l’artbook sia nato in modo del tutto naturale. Nel corso della produzione del set di carte collezionabili ispirate a Cuphead, il team si è trovato con una quantità enorme di materiale di “scarto”: bozze preparatorie, versioni alternative, prove di colore, reinterpretazioni e concept che non avevano trovato spazio nel prodotto finale.
Da qui l’idea: racchiudere tutto in un volume che raccontasse il dietro le quinte dell’intero progetto. Non un semplice artbook celebrativo, ma una vera e propria cronaca visiva del processo creativo. Il risultato è un volume imponente da 416 pagine, diventato immediatamente un oggetto da collezione. L’edizione deluxe, arricchita da cofanetto e dettagli esclusivi, è andata rapidamente sold out, segno di un entusiasmo straordinario da parte del pubblico.
A impreziosire ulteriormente l’opera è la prefazione dei fratelli Moldenhauer, i creatori originali di Cuphead, che hanno voluto personalmente commentare il progetto, riconoscendone il valore artistico e l’approccio rispettoso verso l’opera originale.
La visione di Dario Moccia e la direzione artistica

Il cuore creativo dell’intero progetto è stato Dario Moccia, che ha curato la direzione artistica in ogni sua fase. Il suo lavoro non si è limitato al semplice coordinamento: ha selezionato gli artisti, assegnato soggetti, definito stili e guidato ogni singolo artwork.
Il metodo di lavoro è stato chiaro fin dall’inizio:
“In base al soggetto sceglievo prima lo stile, poi l’artista”.
Una scelta che ha permesso di ottenere un set estremamente vario sul piano estetico, ma allo stesso tempo coerente con l’anima di Cuphead. Ogni carta diventa così un’opera unica, che reinterpreta personaggi, boss e ambientazioni attraverso tecniche differenti: illustrazione tradizionale, pittura digitale, graffiti, scultura, 3D, murales e animazione.
Dal murales alla carta: l’arte che si fa collezione
Uno degli episodi più affascinanti raccontati sul palco riguarda la trasformazione di un murale reale, dipinto in Valcamonica, in una carta collezionabile. Un’opera gigantesca, alta circa 4 metri e larga 8, realizzata su un muro vero, poi ridotta alle dimensioni di una carta da gioco.
All’interno dell’artbook sono documentate tutte le fasi del lavoro:
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sopralluoghi
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realizzazione dal vivo con l’uso della gru
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fotografie di produzione
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correzioni in tempo reale
Non solo: sono state inserite persino le coordinate GPS per permettere ai fan di andare a vedere l’opera dal vivo. Un esempio perfetto di come street art e collezionismo possano fondersi in un unico progetto creativo.
Un’attenzione maniacale per ogni dettaglio

Durante la produzione del set, anche gli elementi più piccoli hanno richiesto un lavoro enorme. Emblematico il caso delle icone di gioco: inizialmente erano state inserite quelle originali del titolo, ma a produzione quasi ultimata è arrivata la richiesta di rielaborarle completamente.
Questo ha portato alla realizzazione di oltre 160 nuove icone disegnate da zero, ciascuna reinterpretata in modo artistico. Un lavoro titanico, che ha richiesto settimane di produzioni serrate, bozze, revisioni e rifiniture. Tutto questo processo è oggi documentato nelle ultime pagine dell’artbook, rendendo il volume una vera miniera di contenuti per appassionati e addetti ai lavori.
Il sogno degli artisti: lavorare su Cuphead

Molti artisti presenti sul palco hanno raccontato quanto questo progetto sia stato, per loro, la realizzazione di un sogno coltivato fin dall’infanzia. Alcuni provengono dal mondo delle carte collezionabili, cresciuti tra Pokémon, Yu-Gi-Oh! e Magic. Altri arrivano dalla street art, dall’illustrazione o dal 3D.
Per tutti, lavorare su un brand come Cuphead ha rappresentato una sfida enorme:
-
da un lato la libertà creativa
-
dall’altro il rispetto del canone originale
-
in mezzo, la necessità di adattare ogni opera alle regole tecniche della stampa e della carta
Il risultato finale dimostra che questo equilibrio è stato raggiunto pienamente.
Il rapporto con i collezionisti
Uno degli aspetti più emozionanti emersi dal panel è stato il rapporto diretto con i fan e i collezionisti. Molti hanno raccontato di:
-
aver iniziato a collezionare proprio grazie a Cuphead – Out of the Cards
-
aver scoperto il gioco solo dopo aver trovato una carta
-
aver completato interi set, cercando varianti numerate, sketch e alterazioni
All’estero, in particolare, il successo è stato sorprendente: centinaia di box venduti online in pochissimo tempo, anche in Paesi dove la comunicazione italiana non era arrivata direttamente. Segno che la forza del progetto è stata soprattutto artistica e non solo legata al brand.
Quando il videogioco diventa arte
Cuphead – Out of the Cards non è solo un artbook e non è solo un set di carte. È un progetto che dimostra come il videogioco possa diventare:
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opera d’arte visiva
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oggetto da collezione
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racconto creativo
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esperienza culturale condivisa
La consacrazione alla Milan Games Week 2025 rappresenta il riconoscimento definitivo di questo percorso. Un esempio concreto di come passione, talento e lavoro di squadra possano trasformare un videogioco in una piattaforma artistica capace di unire mondi diversi.
Videogiochi
Checkpoint: Le notizie dal mondo dei videogiochi dal 1 al 7 Dicembre 2025
Su Checkpoint tutte le principali notizie videoludiche dal 1 al 7 dicembre 2025: Metroid Prime 4, Horses, Netflix e Warner Bros, Resident Evil Requiem
Pubblicato
7 giorni agoil
8 Dicembre 2025Da
Daniele
La prima settimana di dicembre 2025 conferma ancora una volta quanto il mondo dei videogiochi resti in continuo fermento. Dalle scelte creative di Nintendo alle tensioni legali tra Sony e Tencent, passando per l’espansione sempre più aggressiva di Netflix nel mercato dell’intrattenimento globale, questa settimana ha offerto spunti di riflessione importanti anche sul futuro dell’industria.
Ecco tutte le notizie più rilevanti dal 1 al 7 dicembre 2025. Ovviamente solo su Checkpoint!
Metroid Prime 4: tra lodi, polemiche e scelte divisive
Dopo anni di silenzio, rinvii e teaser, Metroid Prime 4 è finalmente arrivato. L’attesa dei fan era enorme e le aspettative altissime. L’uscita del titolo ha però diviso pubblico e critica.
Da un lato, molti giocatori lodano il level design delle aree principali, che riesce a richiamare con forza lo spirito dell’originale Metroid Prime su GameCube. Le sezioni di combattimento risultano fluide, dinamiche e ben strutturate, regalando soddisfazioni soprattutto ai veterani della saga.
Dall’altro lato, numerose scelte di design hanno acceso un acceso dibattito. I dialoghi di alcuni personaggi risultano troppo lunghi e poco incisivi, rallentando il ritmo dell’avventura. A far discutere ancora di più sono però le nuove sezioni open world in moto, che spezzano l’equilibrio classico della serie.
Il gioco alterna così due anime molto diverse:
-
da una parte, fasi di gunplay serrate e appaganti;
-
dall’altra, momenti più lenti, con ampie zone desertiche da attraversare in sella alla moto.
Secondo diversi analisti, Nintendo avrebbe spinto lo sviluppo verso un’impostazione più vicina a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, nel tentativo di allargare il pubblico. Tuttavia, queste aree risultano spesso ampie ma povere di attività, con poche missioni secondarie, oggetti rari da raccogliere e una sensazione generale di dispersione.

A rendere il tutto ancora più controverso interviene la gestione della colonna sonora. Nintendo consente di attivare la musica di sottofondo durante le sezioni in moto solo tramite un amiibo dedicato da circa 20 euro. Questa scelta ha diviso la community.
Molti la considerano una forma di monetizzazione aggressiva. L’azienda, invece, difende la decisione parlando di contenuto opzionale. In ogni caso, Metroid Prime 4 resta uno dei titoli più discussi e analizzati del momento.
Denuncia Sony vs Tencent: Stealth Frontiers finisce sotto osservazione

La disputa legale tra Sony e Tencent entra in una fase ancora più delicata. Tencent ha deciso di bloccare la promozione del suo MMORPG Stealth Frontiers, accusato di prendere forti ispirazioni dal mondo di Horizon.
Tencent aveva annunciato il gioco nell’estate del 2023 con l’obiettivo di creare un grande open world online ambientato in uno scenario post-apocalittico. Lo sviluppo prosegue regolarmente, ma lo stop alla promozione segnala la serietà delle contestazioni sollevate da Sony.
Il blocco non rappresenta solo una mossa cautelativa. Mostra anche quanto il tema della proprietà intellettuale sia diventato centrale nel mercato globale. Se la disputa dovesse aggravarsi, le conseguenze potrebbero influenzare sia il futuro del gioco sia i rapporti tra i due colossi.
The Gods Slayer: l’action GDR che arriva dalla Cina

Patia Games ha pubblicato il primo vero video gameplay di The Gods Slayer, il suo nuovo action GDR open world. Il titolo immerge i giocatori in una metropoli steampunk di ispirazione orientale, tra architetture futuristiche e atmosfere cupe.
Il gioco punta su:
-
combattimenti ad alta velocità,
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esplorazione verticale,
-
una narrazione che promette colpi di scena.
In origine Patia Games lo aveva annunciato come esclusiva PlayStation 5. Ora arriva la conferma anche per PC e Xbox, segnale di una strategia multipiattaforma più ampia. Manca ancora una data d’uscita ufficiale, ma l’interesse del pubblico cresce rapidamente.
Resident Evil Requiem: cresce l’attesa per il nuovo capitolo

Capcom ha fissato l’uscita di Resident Evil Requiem per il 27 febbraio 2026 su PC, PS5 e Xbox Series X. In questi giorni è apparso un breve filmato gameplay che mostra una sezione di combattimento particolarmente intensa.
Secondo alcune indiscrezioni, il video proverrebbe dalla versione censurata giapponese, una pratica storica per la saga. Nonostante questo, i fan hanno già iniziato ad analizzare ogni singolo fotogramma.
Ora l’attenzione si sposta su una possibile demo pre-lancio, che potrebbe arrivare nei prossimi mesi. L’attesa resta altissima e il titolo si prepara a diventare uno degli survival horror più importanti del 2026.
Horses di Santa Ragione: la censura su Steam non si ferma

Valve ha rifiutato in via definitiva la pubblicazione di Horses, il gioco horror-surrealista sviluppato dallo studio italiano Santa Ragione. Steam giustifica la decisione con una build del 2023 giudicata non conforme alle linee guida.
Nonostante le modifiche effettuate dagli sviluppatori, la piattaforma ha mantenuto il blocco. Santa Ragione ha quindi deciso di distribuire il gioco su GOG al prezzo di 4,99 euro.
La risposta del pubblico è stata immediata: Horses ha raggiunto in pochissimo tempo il primo posto nelle vendite. Il caso ha riacceso il dibattito su:
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censura preventiva,
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potere delle piattaforme digitali,
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libertà creativa degli sviluppatori indipendenti.
Netflix acquisisce Warner Bros: nasce un colosso dell’intrattenimento

La notizia più clamorosa della settimana riguarda Netflix, che ha completato l’acquisizione di Warner Bros Discovery per 82,7 miliardi di dollari. L’operazione coinvolge cinema, serie TV e anche importanti studi di sviluppo videoludico.
Tra i team inclusi figurano:
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Rocksteady
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TT Games
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Avalanche
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Realms Studios
Netflix si trasforma così in un vero gigante cross-mediale, capace di controllare film, serie e videogiochi. Nei prossimi anni potremmo assistere a una sempre maggiore integrazione tra i vari media, con franchise capaci di muoversi tra piattaforme diverse con continuità.
La settimana dal 1 al 7 dicembre 2025 dimostra ancora una volta quanto l’industria videoludica resti un ecosistema complesso, dinamico e in continua trasformazione. Tra produzioni controverse, scontri legali internazionali e operazioni finanziarie miliardarie, il settore vive una fase di cambiamento profondo.
Il 2026 si avvicina con promesse importanti. Noi continueremo a raccontarle su Checkpoint, passo dopo passo.
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