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Videogiochi

MGWCMX 2025: press cafè con Hitoshi Sakimoto e Richter

Alla Milan Games Week (MGWCMX 2025), abbiamo partecipato al press cafè di Hitoshi Sakimoto e Richter, musicisti capaci di emozionare attraverso la musica nei videogiochi. Ecco cosa hanno raccontato alle tante domande dei giornalisti presenti

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Alla Milan Games Week si è tenuto un incontro intimo e sorprendentemente ricco di insight: un press café dedicato alla musica videoludica con Hitoshi Sakimoto, storico compositore di Final Fantasy XII, Tactics Ogre, Valkyria Chronicles e decine di altre opere, e Richter, musicista e compositore italiano associato a Basiscape, lo studio fondato dallo stesso Sakimoto.

Richter ha firmato colonne sonore per diversi videogiochi, tra cui Unicorn Overlord, Macross Shooting Insight, Progress Orders e The New Denpa Men, ed è noto per le sue collaborazioni con produzioni indipendenti e per il suo stile elettronico, synth e post–punk.

Quello che doveva essere un semplice scambio di domande si è trasformato in una conversazione franca e profonda sul ruolo del compositore, sulle difficoltà tecniche di ieri e di oggi, sulla ricerca dell’ispirazione e sulla responsabilità emotiva della musica nei videogiochi.

L’origine dell’emozione per Sakimoto: “Volevo ricreare lo stesso sentimento che provavo da giocatore”

Nella foto: Hitoshi Sakimoto

Fin dalle prime battute, Sakimoto ha ribadito un concetto fondamentale che lo accompagna da tutta la vita: la musica, per lui, è prima di tutto emozione.

Da giovane giocatore di RPG, racconta, provava sensazioni fortissime davanti alla saga fantasy che lo aveva catturato. E ciò che ha voluto fare da compositore non è stato altro che ricreare quelle stesse emozioni:

“Quando giocavo, provavo un’emozione molto forte, e componendo volevo semplicemente ricreare quella stessa sensazione.”

È un punto di partenza che definisce la sua filosofia artistica: la musica non nasce da un concetto astratto, ma da un vissuto, da un’esperienza emotiva radicata nel contatto diretto con il medium.
Sakimoto non cerca di imitare, ma di trasporre, con un linguaggio proprio, ciò che provava quando era lui a impugnare il controller.

Le fonti di ispirazione per Richter: tra mentori e “stelle polari”

In foto: Richter

Si passa poi alla questione delle influenze. Un compositore nasce sempre dentro un dialogo con altri autori, un dialogo non detto, silenzioso, ma potentissimo.

Il suo altro mentore, oltre a Sakimoto (che considera una delle sue principali fonti di ispirazione), è Koichi Sugiyama, storico autore delle colonne sonore di Dragon Quest. Un’ispirazione costante, una guida professionale.

“Un altro che considero il mio mentore come compositore è Koichi Sugiyama. Mi ha formato tanto: è l’altra mia stella polare.”

Per il resto, però, le ispirazioni di Richter sono molteplici e in continua evoluzione, parte di un processo di assorbimento costante.

«Sono un grande fan di molti altri compositori giapponesi», ammette, quasi come se fosse superfluo sottolinearlo.

Lavorare con una leggenda e non perdersi: la risposta (involontariamente comica) di Richter

Se Sakimoto è riflessivo, Richter appare immediatamente più teatrale. È il primo a scherzare su se stesso, sulle aspettative esterne, sulla sua immagine.

Gli viene chiesto se lavorare accanto a un gigante come Sakimoto possa creare ansia, timore reverenziale o la sensazione di “stare nell’ombra”. La risposta è una delle più brillanti e spontanee dell’incontro:

“Secondo te perché mi vesto così?”

La battuta fa esplodere la sala in una risata. Poi si ricompone e aggiunge, più serio:

“Non ho quel tipo di problemi. Per me è un onore lavorare con una persona del suo calibro. Non vado in cerca di notorietà: mi fa piacere essere apprezzato, certo, ma non è ciò che mi guida.”

È un momento prezioso, perché rivela un atteggiamento maturo e centrato: la costruzione di un’identità artistica che non nasce né dalla rivalità né dal confronto con un maestro, ma dalla consapevolezza del proprio percorso.

Quando la tecnologia era un limite… che diventava creatività

Lo storico Nintendo Famicon

Una delle parti più affascinanti del press café è quando si parla di tecnologia di altri tempi: non quella attuale, ma quella di ieri, dei chip sonori, delle limitazioni severe e dei pochi canali disponibili.

Sakimoto racconta di quando comporre musica per videogiochi era un esercizio quasi matematico:

“Ai tempi del Famicom avevi pochissimi pezzi da assemblare. Ma proprio perché erano così pochi potevi combinarli in modi infiniti: era come un puzzle. Era controintuitivamente utile.”

Questa frase racchiude un concetto chiave: la creatività nasce anche, e a volte soprattutto, dal limite.

C’è però un contrasto moderno, che Sakimoto non manca di sottolineare. “Oggi tutto è più facile”, ammette, intendendo non la qualità del lavoro, ma la libertà tecnologica.

La musica può essere orchestrale, digitale, ibrida, totalmente libera. Eppure, sorprendentemente, questo non sempre garantisce maggiore ispirazione.

“Il nostro lavoro è emozionare le persone. I puzzle erano divertenti, ma la priorità è sempre il cuore.”

I sogni non realizzati: i giochi su cui avrebbero voluto comporre

Quali giochi avrebbero voluto musicare? Quali mondi vorrebbero affrontare in futuro?

Sakimoto spiazza tutti riferendosi a colonne sonore di videogiochi già esistenti:

“Quando sento una colonna sonora che amo, penso: è bellissima. Ma non avrei voluto farla io.”

In questo c’è una grande umiltà, ma anche un riconoscimento del valore dell’autorialità altrui: ogni musica appartiene a chi l’ha composta.

Poi però aggiunge un desiderio più concreto: vorrebbe lavorare a un progetto hardcore sci-fi, un genere poco popolare in Giappone ma che lo affascina.

Richter, invece, rimane fedele alle sue passioni: un Dragon Quest qualunque pensiero “scontato ma inevitabile”, oppure un F-Zero, che definisce “un sogno assoluto”, anche se, scherza, “dipenderà da Nintendo”.

La collaborazione nelle grandi produzioni

Un tema ricorrente riguarda come funziona davvero la composizione in produzioni gigantesche come Final Fantasy o altri titoli di scala simile: si tratta di un lavoro corale o personale?

Sakimoto chiarisce subito: generalmente non è una singola persona a fare tutto. A volte un compositore scrive il main theme, un altro sviluppa i brani secondari.

La scrittura orchestrale segue direttive precise del compositore principale, ma gli esecutori hanno autonomia. Il mixing è spesso affidato a specialisti esterni. È un processo corale, ma sempre guidato da una visione centrale.

Ispirazione vs. scadenze: la battaglia eterna

Come conciliare l’ispirazione e la creatività con le scadenze? Chiunque lavori in un campo artistico conosce bene questo conflitto. Le risposte dei due musicisti sono differenti, ma complementari a loro modo.

Richter offre una risposta molto schietta:

“La mia buona stella fa sempre arrivare l’ispirazione prima della scadenza. Penso sempre in termini musicali. Da qualche parte, qualcosa salta fuori.”

È un modo poetico per dire che la sua mente non smette mai di elaborare melodie.

Sakimoto, invece, porta una prospettiva diversa:

“Cerco sempre di fare del mio meglio, e questo significa che spesso finisco tutto all’ultimo minuto. È difficile essere soddisfatti, quando vuoi fare qualcosa di buono.”

Due filosofie, due mondi: uno più istintivo e fluido, l’altro più autocritico e perfezionista.

Consigli ai giovani compositori: “Scrivete, scrivete, scrivete”

valkyria chronicles, uno dei videogiochi con la colonna sonora di Sakimoto

Quando si passa ai consigli per aspiranti musicisti del settore, i due autori parlano quasi all’unisono.

Sakimoto è diretto:

“Scrivete tanto. Finite un brano? Subito un altro. Non si impara restando troppo sullo stesso pezzo.”

Richter aggiunge di ascoltare musica di tutti i generi, essere curiosi, studiare molto e non chiudersi nel proprio stile.

I loro gusti: tra techno, jazz, orchestrazioni e synthwave

La conversazione scivola sul terreno personale: che cosa ascoltano realmente, quando non lavorano?

Sakimoto afferma che i suoi gusti, nel corso del tempo, non sono mai davvero cambiati.

Il fatto di comporre colonne sonore lo ha portato, nel tempo libero, ad ascoltare musica molto diversa da quella che scrive: techno, fusion, jazz, generi istintivi e ritmici, in netto contrasto con le sue composizioni orchestrali.

Richter, invece, è un figlio degli anni ’80: post-punk, synthwave, italo-disco, progressive rock (anche se ultimamente meno) e musica classica, da cui proviene.

Aggiunge, sorridendo, che “potrei anche passare un periodo ascoltando musica latino-americana, se mi piace”.

Inoltre, sottolinea come la tecnologia abbia cambiato in meglio il modo di accedere alla musica:

“Oggi posso ascoltare musica giapponese in un click. Prima era quasi impossibile.”

Musica e videogiochi: perché giocare a volume spento è un tradimento

A un certo punto qualcuno chiede: cosa cambia nell’esperienza di Final Fantasy XII ascoltandolo a volume spento?

La risposta di Sakimoto è un pugno nello stomaco:

“Perde tutta la drammaticità. È come se un dipinto perdesse il colore.”

Una frase che racchiude la verità più semplice dell’intero incontro: la musica non è un accessorio, è parte integrante della narrazione.

Un’altra domanda particolarmente interessante riguarda l’unione tra voce e orchestra, una pratica più viva in Giappone che in Occidente.

Entrambi i compositori concordano senza esitazioni: è un’unione potente e preziosa.

“Amo moltissimo la combinazione tra voce e orchestra. Spero continui, c’è ancora tantissimo da sperimentare.”

È un auspicio che riflette il loro ottimismo sul futuro delle colonne sonore videoludiche.
Nonostante i costi produttivi, la contaminazione con la musica pop e l’evoluzione dei media, entrambi credono che ci sia ancora spazio per nuove forme artistiche.

Le colonne sonore che li hanno colpiti di recente

Black Myth: Wukong

A una domanda sulle OST più sorprendenti degli ultimi tempi, la risposta arriva immediata.
Sakimoto sottolinea quanto la scena attuale sia ricca e in movimento, citando in particolare la potenza evocativa dell’ultima grande produzione cinese:

“La colonna sonora di Black Myth: Wukong è stata particolarmente impattante.”

Richter, invece, cita due titoli: Mario Kart World e Earthion di Yuzo Koshiro.

Cosa abbiamo perso (e cosa invece resiste) rispetto al passato

L’evoluzione tecnologica ha cambiato radicalmente il lavoro dei compositori.
Quando è stato chiesto se ci fosse un elemento del passato di cui provano nostalgia, entrambi hanno riflettuto su come le limitazioni tecniche di un tempo, paradossalmente, rendessero la creatività più immediata.

Sakimoto ha osservato come molti brani del passato oggi vengano finalmente apprezzati e riconosciuti:

“I brani che erano davvero apprezzati un tempo ricevono anche oggi la giustizia che meritano. Molti sono diventati dei classici.”

Secondo lui, questi “classici” influenzano ancora oggi la musica contemporanea:

“Nei brani di oggi ritroviamo punti in comune con la musica degli anni ’80, che è diventata un vero standard.”

Richter conferma:

“C’è sempre un ritorno agli anni ’80: la qualità e la voglia di sperimentare di quel periodo sono ancora imbattute. Adoro i Twin Tribes: ripartono da quelle sonorità e le ripropongono con un sound moderno.”

Un ponte fra passato e presente che dimostra come la musica videoludica continui a reinventarsi pur rimanendo legata alle sue radici culturali e sonore.

Talenti nascosti? Le risposte più inaspettate

L’ultima domanda è forse la più intima e spiazzante per i due compositori, che hanno dovuto rivelare se avessero un talento nascosto, qualcosa che il pubblico non conosce, Sakimoto ha ammesso con ironia:

“Non so disegnare, non so scrivere, e una volta programmavo… ma senza particolare talento.”

Parlando della costante evoluzione degli strumenti di lavoro, entrambi hanno sorriso ricordando quanto fosse complesso stare al passo con i software in cambiamento continuo.

Sakimoto ha usato un’immagine molto calzante:

“È come costruire una torre di Jenga: ogni volta che esce un aggiornamento la buttano giù e devi ricominciare da capo.”

Nonostante ciò, considera questa “distruzione creativa” un allenamento continuo:

“Forse non è un talento, ma mi sono abituato a ricostruire la torre ogni volta.”

Richter, invece, ha svelato un’abilità completamente diversa dal mondo della musica:

“Talenti nascosti non lo so… ma faccio un risotto ai funghi davvero buono.”

Una chiusura leggera e perfettamente in linea con il tono rilassato dell’incontro, concluso tra gli applausi della stampa.

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Approfondimenti e Curiosità

Essenza Ludica: Quando un platform ti tiene a galla: il lato terapeutico di Mario 3D World

Su Essenza Ludica si parla di Super Mario 3D World e benessere mentale: una storia vera su come un videogioco può offrire conforto.

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Super Mario 3D World è uno di quei titoli che sembravano destinati a rimanere intrappolati nel purgatorio dorato del Wii U: amato da chi l’aveva giocato, ignorato dal resto del mondo perché — diciamolo — la console Nintendo meno capita dell’ultimo ventennio non era esattamente il posto ideale per un capolavoro.

Quando uscì nel 2013, il panorama videoludico stava cambiando pelle: PS4 e Xbox One inauguravano l’era dell'”open world a tutti i costi”, i tripla A lucidavano muscoli e shader, e il povero Wii U arrancava come un Toad senza power-up. In questo clima da transizione un po’ schizofrenica, Nintendo tirò fuori un platform isometrico lucidissimo, erede di 3D Land, che preferiva l’invenzione geometrica al gigantismo a mappa aperta. Un gioco che ti metteva davanti livelli cesellati con precisione ossessiva, una cooperativa irresistibile e quell’estetica da laboratorio Nintendo in stato di grazia.

Sul piano critico fu un trionfo quasi unanime. Sul piano commerciale… fece quello che poteva. Con circa sei milioni di copie vendute, 3D World diventò uno dei titoli più popolari del Wii U, ma il problema era la console stessa: un palco mezzo vuoto, incapace di dare al gioco l’esposizione che meritava. Per un Mario tridimensionale, un potenziale da 15-20 milioni buttato su una base installata di 13 scarsi era una missione impossibile. Non era il gioco ad aver sbagliato qualcosa; era il pubblico potenziale rimasto fuori dalla porta.

Quando Nintendo ha deciso di dargli una seconda vita su Switch, con l’edizione del 2021 accompagnata dall’espansione Bowser’s Fury, il mondo ha finalmente fatto la conoscenza che avrebbe dovuto fare anni prima. Le recensioni internazionali — entusiaste fino all’imbarazzo — parlavano di “trionfo”, “gioiello di precisione”, “laboratorio di creatività in formato platform”. Insomma: non era l’ennesimo Mario, era il Mario che rischiava di non essere visto.

Un design che ti tiene per mano (nel senso buono)

La struttura di Super Mario 3D World è la prova vivente che Nintendo, quando vuole, riesce a trasformare la geometria in intrattenimento puro. Niente open world dispersivi, niente hub contemplativi: qui si torna a un’impostazione a mondi e livelli, old school ma filtrata attraverso la lente tridimensionale estremamente ordinata inaugurata da 3D Land.

Ogni stage è un’idea: compatta, leggibile, autoconclusiva, progettata per durare il tempo giusto prima di sparire e lasciare spazio alla successiva. È un design “a vignette”, dove il ritmo è dato dal continuo susseguirsi di concept: un livello sul vento, uno sulle piattaforme trasparenti, uno sui doppelgänger, uno sul ritmo musicale… un carosello che ti impedisce di annoiarti perfino se ci provi.

La mappa, con la sua finta libertà di movimento, funziona da buffer respiratorio: cammini, giochi a calcio con Goomba innocenti, fai due passi in un teatrino interattivo e poi entri nel prossimo micro-mondo di follia controllata. È un platform che non ti chiede mai di sposare un’idea per ore e ore; te la presenta, te la fa assaggiare, e la sostituisce con qualcos’altro prima che il tuo entusiasmo cali. Una filosofia quasi da degustazione: piccole porzioni di creatività servite una dietro l’altra, senza appesantire mai.

La cooperativa (ovvero: come rovinare le amicizie con stile)

La cooperativa di Super Mario 3D World è quel tipo di genialata Nintendo che parte come un invito all’armonia familiare e finisce, di solito, come un test di sopravvivenza delle relazioni. Fino a quattro giocatori in contemporanea, ognuno con il proprio peso specifico sul gameplay: il salto più alto di Luigi, la velocità di Toad, la grazia acrobatica di Peach, e Mario… be’, Mario che fa il Mario.

Il livello design, già calibrato al millimetro in solitaria, si trasforma in un caos organizzato quando entra in scena la compagnia: piattaforme che diventano ring, power-up contesi come fosse l’ultimo panettone a dicembre, e quella danza continua tra collaborazione e sabotaggio involontario. È una cooperativa pensata non solo per “aggiungere gente a schermo”, ma per riscrivere il tono della partita: ogni livello cambia ritmo, difficoltà e persino comicità a seconda di quante mani — e quante intenzioni — sono coinvolte.

Il miracolo è che funziona: anziché rompersi sotto il peso dell’anarchia, il gioco la abbraccia e la trasforma in parte del divertimento. E se capita di buttare giù un amico da una piattaforma stretta… è sempre stato colpa della fisica, ovviamente.

Lo studio tedesco: quando Mario smette di essere solo un gioco

Qualche anno fa, un team di ricercatori tedeschi ha fatto ciò che molti giocatori sospettavano da tempo: ha messo Mario in un laboratorio. Non per misurargli il consumo di funghi, ma per capire se un platform ben progettato potesse avere un impatto reale sull’umore.

Il risultato? Un gruppo di partecipanti con sintomi depressivi, dopo alcune sessioni di Super Mario Odyssey, mostrava miglioramenti comparabili a quelli ottenuti con trattamenti più tradizionali, soprattutto in termini di motivazione e benessere percepito. Gli studiosi parlarono di “stimolazione cognitiva positiva” e “senso di progressione chiaro e gratificante”.

Tradotto dal linguaggio accademico: il cervello, quando gli dai qualcosa di brillante, strutturato e gentile con la dopamina, risponde. E mentre il mondo scientifico si interrogava su come un idraulico baffuto potesse avere effetti terapeutici misurabili, molti giocatori alzarono le spalle: “Benvenuti, scienziati. Noi lo diciamo dall’86.”

Lo studio:

  • Titolo: “Effects of a video game intervention on symptoms, training motivation, and visuo-spatial memory in depression”
  • Autori: Moritz Bergmann, Ines Wollbrandt, Lisa Gittel, Eva Halbe, Sarah Mackert, Alexandra Philipsen, Silke Lux
  • Pubblicazione: 2023
  • Contesto: 46 persone con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (MDD) divise in tre gruppi: chi giocava a Super Mario Odyssey su Switch, chi faceva training cognitivo con “CogPack”, e chi seguiva trattamento standard (psicoterapia e/o farmaci)

Risultati principali:

  • Dopo 6 settimane, il gruppo Mario mostrava la diminuzione più significativa di sintomi depressivi clinicamente rilevanti
  • Motivazione maggiore a continuare il “trattamento” ludico rispetto al gruppo CogPack
  • Miglioramenti nei test su memoria visuo-spaziale e funzioni cognitive

Conclusioni dei ricercatori: Un intervento con videogiochi 3D potrebbe aumentare il benessere soggettivo, incrementare la motivazione al training e potenzialmente migliorare alcune funzioni cognitive in soggetti con depressione maggiore — con le dovute cautele sulla dimensione del campione e la necessità di ulteriori ricerche.

Messico, burnout e un idraulico baffuto

A un certo punto ho deciso che questo articolo avrebbe fatto una cosa un po’ fuori dal coro: togliersi il cappello da critico videoludico e infilarsi, per una volta, dentro il personale.

Molti anni fa ho attraversato una fase della vita che definire “pesante” è un eufemismo degno di un comunicato stampa. Un mix di stress lavorativo, responsabilità che si moltiplicavano come Goomba e un paio di casini personali che avrei volentieri parcheggiato in un warp zone lontanissima ha finito per schiacciarmi fino al punto di rottura. Il risultato è stato un burnout vero, profondo, di quelli che ti svuotano e ti spezzano il ritmo interiore.

Il punto è che burnout e depressione, pur non essendo la stessa cosa, sembrano parenti stretti che si scambiano il cappotto all’ingresso. Il burnout nasce in genere da un logoramento prolungato — lavorativo, emotivo, relazionale — che ti consuma poco alla volta, come una batteria che resta sempre in modalità “risparmio energetico” senza mai ricaricarsi davvero. La depressione è una condizione clinica più ampia e complessa, ma i due mondi si sovrappongono spesso: la stanchezza costante, la difficoltà a provare piacere nelle cose, il sentirsi scollegati da sé stessi, la perdita di motivazione e quel pensiero ricorrente che “non ce la farò mai a tornare come prima”.

Il burnout può non arrivare al buio profondo della depressione maggiore, ma ne condivide la modalità: ti annebbia il giudizio, ti toglie il colore dalle giornate, ti fa vivere ogni gesto come un ostacolo in più da superare. E soprattutto — qui sta la trappola — può trasformarsi nella porta d’ingresso della depressione se ignorato o minimizzato.

Ne sono uscito solo cambiando radicalmente stile di vita, prendendo tempo per me, viaggiando e ricucendo le priorità. Ma il burnout, proprio come i boss più ostinati, a volte torna a presentare il conto: non ogni giorno, non sempre allo stesso modo, ma abbastanza da ricordarti che la partita non è mai completamente chiusa.

Puerto Escondido: il paradiso sbagliato

Due anni fa, quel vecchio fantasma ha bussato di nuovo alla porta, e lo ha fatto in un momento che sulla carta avrebbe dovuto essere perfetto.

Ero in Messico, zona Puerto Escondido. Da nomade digitale, abituato a vivere in giro per il mondo, avrei dovuto sentirmi nel mio elemento: amici di vecchia data nei paraggi, clima morbido, onde che sembrano disegnate da uno shader particolarmente romantico.

E invece niente. Il vibe locale, quella miscela di surf, yoga e vita alla giornata, mi scivolava addosso. La zona, ormai super gentrificata, oscillava tra il fasto da cartolina e un’insofferenza sempre più evidente da parte dei local.

A complicare le cose, arrivavo lì in un momento di grande trasformazione personale: avevo appena finito un master, mi muovevo tra progetti importanti, con un senso di scopo che finalmente tornava a pulsare. Ero in modalità “costruire”, non “galleggiare”.

E invece Puerto Escondido pullulava di gente che lavorava una stagione, incassava abbastanza per qualche mese di birrette oceaniche e poi… si vede. Una filosofia perfettamente legittima, quasi invidiabile, ma per me era come osservare un ecosistema che parlava un dialetto emotivo che non conoscevo più.

Io ero lì con la testa piena di obiettivi e visioni di lungo periodo; loro viaggiavano leggeri, con il presente come unico bagaglio a mano. Nessun giudizio: solo un distacco crescente, una sensazione da pesce fuor d’acqua.

Mentre tutti attorno sembravano entrare e uscire dalle feste come NPC perfettamente programmati per il buonumore, io mi sentivo fuori posto. Loro si divertivano con una naturalezza da trailer turistico, surf all’alba e tequila al tramonto; io arrancavo dietro a un’energia che non era la mia.

E poi c’era l’età: avevo appena compiuto 46 anni, quel punto in cui ti aspetti di aver risolto almeno il tutorial della vita, e invece sei ancora lì a premere tasti a caso. In mezzo a ventenni e trentenni fluttuanti tra beach party e volontariato spirituale, ero la figura fuori posto: troppo adulto per fingere leggerezza, troppo stanco per improvvisarla, troppo lucido per ignorare la frattura che si stava aprendo sotto i piedi.

Ed è in quella discrepanza — tra la festa intorno e il silenzio dentro — che il down ha iniziato a premere con tutta la sua forza.

Ritrovare sé stessi, un livello alla volta

Ed è stato proprio lì, in quel miscuglio di solitudine paradossale e rumore di festa, che ho trovato un appiglio inatteso: Super Mario 3D World.

Una sera, dopo l’ennesima giornata passata a sentirmi fuori fase con il mondo, ho acceso la Switch quasi per riflesso. E nel momento in cui il jingle di apertura ha riempito la camera, tutto ha fatto click.

La bellezza di quel gioco, in quella situazione, era la sua capacità di darmi ciò che fuori mancava: una struttura chiara, un obiettivo alla volta, un ritmo comprensibile. Là fuori mi sentivo un quarantenne spaesato, lì dentro ero di nuovo un giocatore con una direzione, un percorso, un micro-scopo chiaro che, in quel momento, valeva più di mille feste perfette.

Super Mario 3D World non mi chiedeva di essere leggero: mi aiutava a ritrovarla, un grammo alla volta.

Una delle cose più sorprendenti di Super Mario 3D World, in quel periodo, è stata la facilità con cui riusciva a riportarmi a uno stato mentale che non provavo da anni: la sensazione di tornare bambino. Non in senso ingenuo o nostalgico da poster motivazionale, ma in quel modo autentico in cui il cervello si concede finalmente di abbassare le difese.

Ogni volta che entravo in un livello, era come infilarmi sotto una coperta che conoscevo benissimo: le musiche leggere, i suoni familiari, quelle animazioni morbide che sembrano uscire da un’epoca della vita in cui tutto era più semplice. Non c’era bisogno di spiegare nulla, non c’era da “performare”: c’era solo da giocare.

Ed è incredibile quanto sollievo possa dare essere cullati da qualcosa che parla la lingua della tua infanzia, quando fuori tutto sembra urlare in un idioma che non capisci più. In Messico, mentre il mondo reale mi chiedeva di sintonizzarmi su frequenze emotive sbagliate per me, Mario mi riportava su una banda che conoscevo perfettamente: quella della meraviglia, del ritmo, del piccolo progresso che scalda il cuore.

Per un’ora al giorno, forse meno, non ero il quarantenne smarrito che cercava il proprio posto tra surfisti e nottambuli: ero il bambino che si stupiva di nuovo di fronte a un livello fatto bene. Ed era esattamente ciò di cui avevo bisogno.

Perché funziona

La verità è che Super Mario 3D World funziona benissimo come gioco-comfort perché parla la lingua che in quei momenti la mente capisce ancora: regolarità, chiarezza, piccole vittorie.

Il suo design “a vignette” è una benedizione per chi ha la testa impastata: ogni livello è breve, nitido, perfettamente contenuto. Non ti chiede immersioni infinite, non pretende concentrazione maratonetica; ti offre invece micro-percorsi che si chiudono in cinque minuti, ciascuno con un obiettivo limpido e una struttura che restituisce immediatamente un senso di competenza.

È l’opposto dei mondi sconfinati che ti lasciano scegliere “cosa fare” quando tu non sai nemmeno “come stare”: 3D World ti prende per mano, ti propone un puzzle elegante, ti dà un feedback chiaro e ti rimette in pista.

In più, la sua estetica zuccherina — colori pastello, musiche leggere, animazioni buffe — non è solo un vezzo artistico: è un balsamo emotivo. È difficile sentirsi completamente sbagliati quando un Mario-gatto si arrampica su un muro come se stesse facendo ginnastica per bambini.

E poi c’è il ritmo, quel flusso continuo di idee che si alternano senza strafare: abbastanza vario da stimolarti, abbastanza contenuto da non sopraffarti. In un periodo in cui la realtà fuori sembrava un livello progettato male, 3D World era il livello progettato benissimo che mi ricordava che, da qualche parte, le cose potevano ancora avere un senso.

La difficoltà giusta

Ricordavo Super Mario 3D World come un titolo quasi troppo permissivo. La prima volta, ai tempi del Wii U, lo avevo archiviato nella categoria dei “platform gentili”: brillante, sì, ma con una difficoltà che raramente ti mordeva le caviglie.

Ma in Messico quella percezione si è ribaltata del tutto. Quella “facilità” che un tempo mi sembrava un difetto lì è diventata una virtù chirurgica: il livello esatto di permissività che serve quando la tua mente non è in forma e ha bisogno di un’esperienza che non la faccia sentire in fallimento ogni tre minuti.

3D World non ti punisce con cattiveria, non ti schiaccia, non ti espone alla frustrazione: ti incoraggia, ti accarezza l’ego quel tanto che basta a tenerti in movimento. È un gioco che concede spazio all’errore senza trasformarlo in giudizio, che ti permette di sperimentare senza il timore di perdere tutto.

In quel contesto emotivo, la sua difficoltà morbida non era “banale”: era calibrata, precisa, quasi terapeutica. Non avevo bisogno di un platform che mettesse alla prova la mia abilità; avevo bisogno di un platform che mettesse in pausa la mia ansia. E 3D World ci riusciva con la naturalezza con cui altri giochi, ben più ambiziosi, provano a fallire da anni.

Un Mario diverso, stessa medicina

Lo studio tedesco parlava di Super Mario Odyssey, certo: un’avventura gigantesca, scintillante, costruita proprio per stupire e tenerti agganciato livello dopo livello. Ma per me, invece, il gioco che ha fatto scattare qualcosa è stato Super Mario 3D World.

Non ha la grandeur esplorativa di Odyssey, non ha i regni sconfinati né le acrobazie del cappello posseduto: ha qualcosa di più discreto, più umile, più… calibrato. E forse è proprio questo il punto. Mentre i ricercatori misuravano la luce nei volti di chi attraversava New Donk City, io la ritrovavo negli angoli squadrati e gentili dei livelli di 3D World, in quel ritmo perfetto che ti tiene per mano senza tirare né spingere.

È paradossale: lo studio parlava di un altro Mario, ma la sua conclusione — quella scintilla di benessere, di motivazione ritrovata — io l’ho vissuta su un palco diverso, con un protagonista ugualmente baffuto ma con un mood tutto suo.

Ed è anche grazie a questo intreccio imprevisto tra scienza e vita che Super Mario 3D World è diventato per me uno dei migliori giochi di sempre: non solo per come è progettato, ma per come mi ha tenuto insieme quando ne avevo più bisogno.

Alla fine, questa storia non parla davvero di me in Messico né di quanto fosse stonata la colonna sonora emotiva in mezzo a un mare di surfisti felici. Non parla nemmeno solo di Mario, per quanto il buon idraulico baffuto abbia fatto più per il mio equilibrio mentale di molti manuali di auto aiuto.

Parla di un’idea semplice, che continuiamo a sottovalutare: i videogiochi, quando sono fatti con cura e intelligenza, possono diventare luoghi. Rifugi. Stanze sicure in cui respirare quando fuori l’aria si fa troppo pesante.

Lo studio tedesco ha provato a dimostrarlo con dati e tabelle; io l’ho scoperto nel modo più disordinato e umano possibile, ritrovandomi in una stanza a Puerto Escondido con la testa piena di pensieri e un Mario-gatto che mi restituiva un pezzo di serenità alla volta.

E forse è proprio questo il potere dei videogiochi: non quello di salvarci — per quello servono cambiamenti reali, tempo, cura — ma quello di accompagnarci mentre proviamo a salvarci da soli. Di ricordarci che siamo ancora capaci di stupirci, di imparare, di ripartire da zero senza vergogna. Di offrirci un livello ben progettato anche quando la nostra vita sembra tutto fuorché tale.

Per questo Super Mario 3D World, ormai, non è solo uno dei miei giochi preferiti: è un promemoria gentile che porto con me. Che nei momenti in cui tutto sembra troppo, a volte basta solo premere “Start”.

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Collezionismo e Merchandise

L’arte di Cuphead alla MGWCMX 2025: dietro le quinte dell’Artbook Tomadachi Press

Alla Milan Games Week 2025 Dario Moccia e lo staff di Tomodachi Press presente hanno presentato l’Official Artbook di Cuphead: un viaggio tra arte e carte collezionabili

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La Milan Games Week 2025 si è confermata ancora una volta come uno degli appuntamenti più importanti per il mondo dei videogiochi, della cultura pop e dell’intrattenimento digitale. Tra anteprime, ospiti internazionali, tornei esport e novità hardware, uno degli eventi più intensi e applauditi si è svolto al Sullivan Stage Powered by Game Life, dove è andato in scena il panel dedicato a Cuphead – Out of the Cards, l’Official Artbook che celebra il celebre videogioco attraverso l’arte di decine di artisti.

Un incontro attesissimo, che ha richiamato non solo i fan del titolo di Studio MDHR, ma anche collezionisti, illustratori, appassionati di street art, fumetti, animazione e cultura nerd a 360 gradi. Protagonista sul palco parte del team di Tomodachi Press: Dario Moccia, Davide Masella, Plot Jacobs, Nico Ray e numerosi altri artisti che hanno contribuito a rendere questo progetto una vera e propria opera corale.

Cuphead: Out of the Cards - Official Trailer : r/Cuphead

Un progetto nato quasi per necessità

Durante il panel è stato raccontato come l’artbook sia nato in modo del tutto naturale. Nel corso della produzione del set di carte collezionabili ispirate a Cuphead, il team si è trovato con una quantità enorme di materiale di “scarto”: bozze preparatorie, versioni alternative, prove di colore, reinterpretazioni e concept che non avevano trovato spazio nel prodotto finale.

Da qui l’idea: racchiudere tutto in un volume che raccontasse il dietro le quinte dell’intero progetto. Non un semplice artbook celebrativo, ma una vera e propria cronaca visiva del processo creativo. Il risultato è un volume imponente da 416 pagine, diventato immediatamente un oggetto da collezione. L’edizione deluxe, arricchita da cofanetto e dettagli esclusivi, è andata rapidamente sold out, segno di un entusiasmo straordinario da parte del pubblico.

A impreziosire ulteriormente l’opera è la prefazione dei fratelli Moldenhauer, i creatori originali di Cuphead, che hanno voluto personalmente commentare il progetto, riconoscendone il valore artistico e l’approccio rispettoso verso l’opera originale.

La visione di Dario Moccia e la direzione artistica

JapOn - Cuphead - Out Of The Cards Box - Dario Moccia

Il cuore creativo dell’intero progetto è stato Dario Moccia, che ha curato la direzione artistica in ogni sua fase. Il suo lavoro non si è limitato al semplice coordinamento: ha selezionato gli artisti, assegnato soggetti, definito stili e guidato ogni singolo artwork.

Il metodo di lavoro è stato chiaro fin dall’inizio:

“In base al soggetto sceglievo prima lo stile, poi l’artista”.

Una scelta che ha permesso di ottenere un set estremamente vario sul piano estetico, ma allo stesso tempo coerente con l’anima di Cuphead. Ogni carta diventa così un’opera unica, che reinterpreta personaggi, boss e ambientazioni attraverso tecniche differenti: illustrazione tradizionale, pittura digitale, graffiti, scultura, 3D, murales e animazione.

Dal murales alla carta: l’arte che si fa collezione

Uno degli episodi più affascinanti raccontati sul palco riguarda la trasformazione di un murale reale, dipinto in Valcamonica, in una carta collezionabile. Un’opera gigantesca, alta circa 4 metri e larga 8, realizzata su un muro vero, poi ridotta alle dimensioni di una carta da gioco.

All’interno dell’artbook sono documentate tutte le fasi del lavoro:

  • sopralluoghi

  • realizzazione dal vivo con l’uso della gru

  • fotografie di produzione

  • correzioni in tempo reale

Non solo: sono state inserite persino le coordinate GPS per permettere ai fan di andare a vedere l’opera dal vivo. Un esempio perfetto di come street art e collezionismo possano fondersi in un unico progetto creativo.

Un’attenzione maniacale per ogni dettaglio

Cuphead - Out of the Cards" - Official Artbook | Regular Edition – Tomodachi Press

Durante la produzione del set, anche gli elementi più piccoli hanno richiesto un lavoro enorme. Emblematico il caso delle icone di gioco: inizialmente erano state inserite quelle originali del titolo, ma a produzione quasi ultimata è arrivata la richiesta di rielaborarle completamente.

Questo ha portato alla realizzazione di oltre 160 nuove icone disegnate da zero, ciascuna reinterpretata in modo artistico. Un lavoro titanico, che ha richiesto settimane di produzioni serrate, bozze, revisioni e rifiniture. Tutto questo processo è oggi documentato nelle ultime pagine dell’artbook, rendendo il volume una vera miniera di contenuti per appassionati e addetti ai lavori.

Il sogno degli artisti: lavorare su Cuphead

Box "Cuphead - Out Of The Cards" – Tomodachi Press

Molti artisti presenti sul palco hanno raccontato quanto questo progetto sia stato, per loro, la realizzazione di un sogno coltivato fin dall’infanzia. Alcuni provengono dal mondo delle carte collezionabili, cresciuti tra Pokémon, Yu-Gi-Oh! e Magic. Altri arrivano dalla street art, dall’illustrazione o dal 3D.

Per tutti, lavorare su un brand come Cuphead ha rappresentato una sfida enorme:

  • da un lato la libertà creativa

  • dall’altro il rispetto del canone originale

  • in mezzo, la necessità di adattare ogni opera alle regole tecniche della stampa e della carta

Il risultato finale dimostra che questo equilibrio è stato raggiunto pienamente.

Il rapporto con i collezionisti

Uno degli aspetti più emozionanti emersi dal panel è stato il rapporto diretto con i fan e i collezionisti. Molti hanno raccontato di:

  • aver iniziato a collezionare proprio grazie a Cuphead – Out of the Cards

  • aver scoperto il gioco solo dopo aver trovato una carta

  • aver completato interi set, cercando varianti numerate, sketch e alterazioni

All’estero, in particolare, il successo è stato sorprendente: centinaia di box venduti online in pochissimo tempo, anche in Paesi dove la comunicazione italiana non era arrivata direttamente. Segno che la forza del progetto è stata soprattutto artistica e non solo legata al brand.

Quando il videogioco diventa arte

Cuphead – Out of the Cards non è solo un artbook e non è solo un set di carte. È un progetto che dimostra come il videogioco possa diventare:

  • opera d’arte visiva

  • oggetto da collezione

  • racconto creativo

  • esperienza culturale condivisa

La consacrazione alla Milan Games Week 2025 rappresenta il riconoscimento definitivo di questo percorso. Un esempio concreto di come passione, talento e lavoro di squadra possano trasformare un videogioco in una piattaforma artistica capace di unire mondi diversi.

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Videogiochi

Checkpoint: Le notizie dal mondo dei videogiochi dal 1 al 7 Dicembre 2025

Su Checkpoint tutte le principali notizie videoludiche dal 1 al 7 dicembre 2025: Metroid Prime 4, Horses, Netflix e Warner Bros, Resident Evil Requiem

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La prima settimana di dicembre 2025 conferma ancora una volta quanto il mondo dei videogiochi resti in continuo fermento. Dalle scelte creative di Nintendo alle tensioni legali tra Sony e Tencent, passando per l’espansione sempre più aggressiva di Netflix nel mercato dell’intrattenimento globale, questa settimana ha offerto spunti di riflessione importanti anche sul futuro dell’industria.
Ecco tutte le notizie più rilevanti dal 1 al 7 dicembre 2025. Ovviamente solo su Checkpoint!

Metroid Prime 4: tra lodi, polemiche e scelte divisive

Metroid Prime™ 4: Beyond – Nintendo Switch™ 2 Edition Upgrade Pack for Nintendo Switch 2 - Nintendo Official Site

Dopo anni di silenzio, rinvii e teaser, Metroid Prime 4 è finalmente arrivato. L’attesa dei fan era enorme e le aspettative altissime. L’uscita del titolo ha però diviso pubblico e critica.

Da un lato, molti giocatori lodano il level design delle aree principali, che riesce a richiamare con forza lo spirito dell’originale Metroid Prime su GameCube. Le sezioni di combattimento risultano fluide, dinamiche e ben strutturate, regalando soddisfazioni soprattutto ai veterani della saga.

Dall’altro lato, numerose scelte di design hanno acceso un acceso dibattito. I dialoghi di alcuni personaggi risultano troppo lunghi e poco incisivi, rallentando il ritmo dell’avventura. A far discutere ancora di più sono però le nuove sezioni open world in moto, che spezzano l’equilibrio classico della serie.

Il gioco alterna così due anime molto diverse:

  • da una parte, fasi di gunplay serrate e appaganti;

  • dall’altra, momenti più lenti, con ampie zone desertiche da attraversare in sella alla moto.

Secondo diversi analisti, Nintendo avrebbe spinto lo sviluppo verso un’impostazione più vicina a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, nel tentativo di allargare il pubblico. Tuttavia, queste aree risultano spesso ampie ma povere di attività, con poche missioni secondarie, oggetti rari da raccogliere e una sensazione generale di dispersione.

The Metroid Prime 4: Beyond amiibo look fantastic, but what in-game benefits do they offer? - Adventure Gamers

A rendere il tutto ancora più controverso interviene la gestione della colonna sonora. Nintendo consente di attivare la musica di sottofondo durante le sezioni in moto solo tramite un amiibo dedicato da circa 20 euro. Questa scelta ha diviso la community.

Molti la considerano una forma di monetizzazione aggressiva. L’azienda, invece, difende la decisione parlando di contenuto opzionale. In ogni caso, Metroid Prime 4 resta uno dei titoli più discussi e analizzati del momento.

Denuncia Sony vs Tencent: Stealth Frontiers finisce sotto osservazione

Analysis of Sony's lawsuit against Tencent with comments from legal experts: focus on intent, calculation of compensation, and other nuances | WN Hub

La disputa legale tra Sony e Tencent entra in una fase ancora più delicata. Tencent ha deciso di bloccare la promozione del suo MMORPG Stealth Frontiers, accusato di prendere forti ispirazioni dal mondo di Horizon.

Tencent aveva annunciato il gioco nell’estate del 2023 con l’obiettivo di creare un grande open world online ambientato in uno scenario post-apocalittico. Lo sviluppo prosegue regolarmente, ma lo stop alla promozione segnala la serietà delle contestazioni sollevate da Sony.

Il blocco non rappresenta solo una mossa cautelativa. Mostra anche quanto il tema della proprietà intellettuale sia diventato centrale nel mercato globale. Se la disputa dovesse aggravarsi, le conseguenze potrebbero influenzare sia il futuro del gioco sia i rapporti tra i due colossi.

The Gods Slayer: l’action GDR che arriva dalla Cina

PlayStation China Hero Project action RPG The God Slayer from Pathea Games announced - Gematsu

Patia Games ha pubblicato il primo vero video gameplay di The Gods Slayer, il suo nuovo action GDR open world. Il titolo immerge i giocatori in una metropoli steampunk di ispirazione orientale, tra architetture futuristiche e atmosfere cupe.

Il gioco punta su:

  • combattimenti ad alta velocità,

  • esplorazione verticale,

  • una narrazione che promette colpi di scena.

In origine Patia Games lo aveva annunciato come esclusiva PlayStation 5. Ora arriva la conferma anche per PC e Xbox, segnale di una strategia multipiattaforma più ampia. Manca ancora una data d’uscita ufficiale, ma l’interesse del pubblico cresce rapidamente.

Resident Evil Requiem: cresce l’attesa per il nuovo capitolo

Resident Evil Requiem - Reveal Trailer

Capcom ha fissato l’uscita di Resident Evil Requiem per il 27 febbraio 2026 su PC, PS5 e Xbox Series X. In questi giorni è apparso un breve filmato gameplay che mostra una sezione di combattimento particolarmente intensa.

Secondo alcune indiscrezioni, il video proverrebbe dalla versione censurata giapponese, una pratica storica per la saga. Nonostante questo, i fan hanno già iniziato ad analizzare ogni singolo fotogramma.

Ora l’attenzione si sposta su una possibile demo pre-lancio, che potrebbe arrivare nei prossimi mesi. L’attesa resta altissima e il titolo si prepara a diventare uno degli survival horror più importanti del 2026.

Horses di Santa Ragione: la censura su Steam non si ferma

HORSES: perchè Steam ha censurato il gioco di Santa Ragione

Valve ha rifiutato in via definitiva la pubblicazione di Horses, il gioco horror-surrealista sviluppato dallo studio italiano Santa Ragione. Steam giustifica la decisione con una build del 2023 giudicata non conforme alle linee guida.

Nonostante le modifiche effettuate dagli sviluppatori, la piattaforma ha mantenuto il blocco. Santa Ragione ha quindi deciso di distribuire il gioco su GOG al prezzo di 4,99 euro.

La risposta del pubblico è stata immediata: Horses ha raggiunto in pochissimo tempo il primo posto nelle vendite. Il caso ha riacceso il dibattito su:

  • censura preventiva,

  • potere delle piattaforme digitali,

  • libertà creativa degli sviluppatori indipendenti.

Netflix acquisisce Warner Bros: nasce un colosso dell’intrattenimento

Netflix Acquires WB But Their One Promise To Save Theaters Is Making a Deal With The Devil Itself

La notizia più clamorosa della settimana riguarda Netflix, che ha completato l’acquisizione di Warner Bros Discovery per 82,7 miliardi di dollari. L’operazione coinvolge cinema, serie TV e anche importanti studi di sviluppo videoludico.

Tra i team inclusi figurano:

  • Rocksteady

  • TT Games

  • Avalanche

  • Realms Studios

Netflix si trasforma così in un vero gigante cross-mediale, capace di controllare film, serie e videogiochi. Nei prossimi anni potremmo assistere a una sempre maggiore integrazione tra i vari media, con franchise capaci di muoversi tra piattaforme diverse con continuità.

La settimana dal 1 al 7 dicembre 2025 dimostra ancora una volta quanto l’industria videoludica resti un ecosistema complesso, dinamico e in continua trasformazione. Tra produzioni controverse, scontri legali internazionali e operazioni finanziarie miliardarie, il settore vive una fase di cambiamento profondo.

Il 2026 si avvicina con promesse importanti. Noi continueremo a raccontarle su Checkpoint, passo dopo passo.

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